In Italia il problema delle tasse sul lavoro è sempre lì

Anzi, nel 2024 il famigerato cuneo fiscale è pure aumentato: ogni 1.000 euro pagati dall'azienda, 471 vanno allo Stato e solo 529 al dipendente

(Unsplash)
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Secondo un annuale rapporto dell’OCSE – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che si occupa di studi e analisi su economia e società – nel 2024 in Italia le tasse sul lavoro sono aumentate ancora, peggiorando un cronico e storico problema per i dipendenti italiani: l’Italia è passata dal quinto al quarto posto tra i paesi OCSE per la dimensione del famigerato cuneo fiscale, cioè la misura di quanto lo stipendio dei lavoratori dipendenti si riduce in media dopo tutte le imposte, i contributi e gli altri oneri pagati complessivamente da dipendenti e datore di lavoro.

In Italia questo valore per un lavoratore single è del 47,1 per cento del costo complessivo del lavoro, 12 punti in più della media OCSE e 1,6 punti percentuali in aumento rispetto al 2023: significa che in media ogni 1.000 euro pagati dall’azienda, 471 vanno allo Stato e solo 529 al dipendente. Le tasse sul lavoro sono più alte solo in Francia, Germania e Belgio, dove sono rispettivamente del 47,3, 48 e 52,6 per cento. Il carico fiscale sul lavoro, seppur pesante e tra i più alti al mondo, è spesso indicato come la causa principale degli inadeguati stipendi italiani, ma non è proprio così.

Le pesanti tasse del lavoro non sono infatti un problema di per sé, perché servono a finanziare la gran parte dello stato sociale, quindi pensioni, ospedali, scuole, e via dicendo (a volte in modo inefficiente, ma questa è un’altra storia). Diventano un problema però nella misura in cui peggiorano gli stipendi già molto più bassi e stagnanti dei lavoratori italiani rispetto a quelli degli altri paesi, che però hanno cause legate a com’è fatta l’economia italiana e non alla tassazione: la bassa produttività, lavoratori poco formati, aziende piccole e vecchie, infrastrutture inadeguate, tra le altre cose. Francia e Germania, due paesi con economie paragonabili a quella italiana, hanno più tasse sul lavoro, eppure i loro lavoratori hanno comunque stipendi più alti di quelli italiani rispettivamente del 12 e del 33 per cento.

Per aumentare gli stipendi servirebbero dunque riforme e interventi più strutturali sull’economia – che rendano le aziende italiane più innovative e competitive, per esempio – ma la politica parla da sempre di ridurre il cuneo fiscale, con interventi anche molto costosi: basta pensare che dalle imposte sul reddito dei lavoratori dipendenti, l’IRPEF, deriva più della metà di tutto il gettito dell’imposta. Per certi versi è però la soluzione più comoda e veloce per dare una mano alle aziende a pagare un po’ di più i dipendenti.

Va proprio in questa direzione la riduzione delle tasse sul lavoro introdotta inizialmente dal governo di Mario Draghi, in un momento di emergenza in cui c’era bisogno di compensare alla svelta gli effetti sui redditi della crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina e dell’inflazione. Poi è stata potenziata e resa permanente dal governo attuale: fino al 2024 aveva garantito uno sconto sui contributi versati che poteva arrivare fino a 1.200 euro all’anno per chi aveva un reddito da lavoro dipendente inferiore ai 35mila euro annuali. Da quest’anno lo sconto è stato rimodulato e non vale più sui contributi – cioè quella parte che va all’INPS e serve a pagare le pensioni – ma sull’imposta sui redditi, l’IRPEF.

L’aumento del cuneo fiscale italiano che l’OCSE registra nel 2024 è per certi versi un effetto perverso proprio di questo provvedimento: il reddito medio italiano da lavoro dipendente stimato dall’OCSE, e su cui è calcolato proprio il peso complessivo delle tasse sul lavoro, nel 2024 è stato di 35.616 euro, superando così la soglia oltre cui non si ha più diritto a questo sconto. Col risultato che il cuneo fiscale è aumentato nel suo complesso, per quanto poi lo sconto sia in vigore e comunque a beneficio di molti (i calcoli sono una media).

È una conseguenza di quello che in economia si chiama fiscal drag, o drenaggio fiscale, cioè il fatto che gran parte dell’aumento complessivo dei redditi dovuto all’inflazione finisce poi in tasse. È quello che è successo in questi anni: il continuo aumento del costo della vita ha spinto sindacati e lavoratori a chiedere e spesso ottenere stipendi più alti per far fronte a spese più elevate, arrivando sì a guadagnare di più ma anche a perdere qualche sgravio o a dover pagare imposte più alte.

È anche il motivo per cui i bonus che funzionano con vecchie soglie di reddito sono ormai ritenuti uno strumento controproducente in un sistema fiscale progressivo come quello italiano, cioè in cui si paga una quota di imposte crescente all’aumentare del reddito: oggi i lavoratori italiani guadagnano più di cinque anni fa, stanno peggio perché il costo della vita è aumentato, eppure sui loro redditi pagano pure più tasse.

I calcoli dell’OCSE usano comunque la retribuzione rappresentativa di un lavoratore single, che quindi non beneficia di alcun tipo di sgravio o detrazione familiare: per una famiglia di due persone con un solo reddito e due figli a carico il cuneo fiscale si riduce da 47,1 a 35,4 per cento.

– Leggi anche: Le scarse competenze dei lavoratori italiani