“Virale” vuol dire ancora qualcosa?
I video pubblicati online possono facilmente raggiungere molte più persone di dieci anni fa, ma è molto più difficile che abbiano un vero impatto culturale

Il 5 aprile 2011 l’utente di YouTube saraj00n pubblicò un video che è tuttora considerato uno dei più memorabili della storia del web. Prese la gif di un gatto animato con un biscotto al posto del busto che lasciava dietro di sé una scia arcobaleno mentre volava nello spazio, aggiunse come sottofondo la canzone “Nyanyanyanyanyanyanya” del musicista giapponese DaniwellP, e pubblicò il risultato su YouTube con il titolo “Nyan Cat”.
Il video divenne presto virale: secondo Business Insider, in meno di un mese ottenne più di 7,2 milioni di visualizzazioni. Ma, soprattutto, chi passava molto tempo su internet lo trovava dappertutto: condiviso dagli amici su Facebook, rebloggato migliaia di volte su Tumblr, citato negli articoli di BuzzFeed e nei video parodia di molti altri canali YouTube. Spuntarono anche interi siti che servivano soltanto a guardare Nyan Cat cavalcare attraverso lo spazio con “Nyanyanyanyanyanyanya” in sottofondo, così come vari piccoli videogiochi a tema, giocabili da desktop. Nei primi dodici mesi dalla pubblicazione raggiunse 70 milioni di visualizzazioni. Lo citò pure brevemente Il Post, in un articolo del 2012.
(Nyan Cat è al numero 5, al minuto 1:40)
Se fosse stato caricato nell’aprile del 2025, e avesse ottenuto 7 milioni di visualizzazioni nell’arco di un mese, non è detto che quello di Nyan Cat sarebbe stato considerato un video virale. Nell’arco degli ultimi dieci anni, infatti, la metrica che tradizionalmente veniva utilizzata per determinare la viralità di un video – il numero di visualizzazioni – è stata distorta al punto che è davvero complesso, oggi, determinare quante persone abbiano effettiva coscienza di uno specifico video, meme o trend.
È un fenomeno che la giornalista statunitense Taylor Lorenz ha chiamato “viralflation”, dalla crasi di “viral” (virale) e “inflation” (inflazione). Secondo Lorenz, oggi la parola “virale” viene usata quasi sempre a sproposito, anche perché conviene: capita spesso, per esempio, che un’azienda cerchi di promuovere un proprio prodotto usando descrizioni come «la gonna virale su TikTok», «i panini che sono diventati virali», «la palette di ombretti virale» e così via. Quasi sempre si tratta di prodotti di cui soltanto una nicchia di persone – magari i follower di uno specifico influencer – sono a conoscenza: «è come il tuo bar del quartiere che dice che fa il miglior caffè del mondo: ottimo marketing, ma non esattamente vero», ha detto Don Caldwell, caporedattore del sito Know Your Meme.
Da una parte, la “viralflazione” è dovuta al fatto che le varie piattaforme hanno cambiato il modo di contare le visualizzazioni, talvolta arrivando a falsarle: per questo, se oggi un video ottiene 7 milioni di visualizzazioni in un mese fa molta meno notizia rispetto a dieci anni fa.
Già nel 2016, Facebook ammise di aver gonfiato le visualizzazioni dei video sulla piattaforma cambiando il modo in cui venivano calcolate, contando una visualizzazione per ogni utente che guardava un video per più di 3 secondi, per dare l’impressione che ci fossero più persone interessate ai video sulla piattaforma di quanti non ce ne fossero davvero. Su TikTok, la metrica vale ancora meno: ogni volta che un video viene guardato anche soltanto per una frazione di secondo, raccoglie una visualizzazione. Se una persona guarda lo stesso video più volte di seguito, ogni singola riproduzione viene calcolata come una visualizzazione extra.
A fine marzo, YouTube ha annunciato che ora le visualizzazioni dei suoi contenuti più brevi (gli YouTube Shorts, un formato verticale simile ai video di TikTok e ai reel di Instagram) verranno calcolate nello stesso modo in cui lo fa TikTok. L’azienda ha spiegato di aver preso la decisione perché i creatori di contenuti che pubblicano video su piattaforme diverse erano scoraggiati dal fatto che il loro numero di visualizzazioni su YouTube fosse molto inferiore a quello registrato per gli stessi video su TikTok e Instagram. Secondo Caldwell, in generale «le piattaforme sono incentivate a pompare queste metriche per fare bella figura con gli inserzionisti. In breve, dietro a questa “viralflazione” c’è anche un incentivo finanziario».
– Leggi anche: I vent’anni di YouTube, portati bene
Non è una riflessione del tutto nuova. Già nel 2011 lo youtuber Kevin Nalty, meglio conosciuto come Nalts, diceva che «qualche anno fa, un video poteva essere considerato “virale” se raggiungeva un milione di visualizzazioni». Nel 2011, aggiungeva, a suo avviso la stessa cosa valeva solo per i video che ottenevano più di 5 milioni di visualizzazioni entro 3-7 giorni.
Nello stesso articolo, la giornalista di Adweek Megan O’Neill scriveva che per determinare l’effettiva viralità di un video, oltre al numero di visualizzazioni bisognava considerare anche la discussione culturale che generava: «i video virali sono quelli che stanno sulla bocca di tutti: vengono citati nei blog più popolari, raggiungono le prime posizioni su siti come Reddit, vengono twittati e postati su Facebook e persino citati nei telegiornali (…) Quando le persone remixano il tuo video, lo ritagliano, lo copiano, lo modificano con l’auto-tune, sai che è un vero successo».
Oggi alcuni creatori di contenuti – tra cui MrBeast, i cui video raggiungono sistematicamente le decine di milioni di visualizzazioni – hanno perfezionato tecniche per far sì che i loro video siano visti da un enorme numero di persone. Al contempo, il numero di persone che consumano questo genere di contenuti online è nettamente aumentato negli ultimi dieci anni. Eppure, resta raro che un video sia davvero «sulla bocca di tutti». «Se tutti cercano di realizzare video che ottengano centinaia di milioni di visualizzazioni, ci saranno sempre più video che ottengono quelle centinaia di milioni di visualizzazioni. Ma non è affatto detto che siano video di una qualità significativa», riassume la rivista New Scientist.
Rispetto a un tempo, dunque, è difficile che un video spicchi particolarmente. «La ragione principale per cui tutti i numeri oggi sono più alti di un tempo è che la gente consuma molti più contenuti per volta di quanto non facesse un tempo», ha detto Coco Mocoe, che si occupa di analizzare e prevedere le tendenze sui social network. «Non c’è la stessa permanenza che c’era un tempo. Se ti guardi 50 video con un milione di visualizzazioni, è meno probabile che te ne ricordi qualcuno rispetto a un decennio fa, quando magari ti guardavi cinque video al giorno e solo uno raggiungeva quel numero».
A questo si aggiunge il fatto che, rispetto a un tempo, il web è diviso in molte più nicchie di varie grandezze. Il fatto che oggi le persone trovino i video soprattutto grazie ad algoritmi di raccomandazione personalizzati (e quindi non tramite passaparola, come era più comune dieci anni fa) fa sì che video estremamente popolari in una nicchia anche nutrita di persone siano del tutto sconosciuti ad altri utenti che pur passano lo stesso quantitativo di tempo online.
I video del filone “Italian brainrot” – che mostrano personaggi animaleschi surreali generati con l’intelligenza artificiale accompagnati da frasi in italiano piene di errori grammaticali e bestemmie – sono per esempio circolati per mesi in alcune nicchie su TikTok, ottenendo centinaia di migliaia di visualizzazioni, prima di diventare famosi a livello internazionale all’inizio di aprile.
– Leggi anche: I meme nati in Italia che stanno avendo un enorme successo su TikTok