La discarica di Malagrotta inquina ancora, anche se la puzza non c’è più
La qualità dell'aria è migliorata, e si sente, ma nelle acque e nei terreni circostanti le cose sono peggiorate
di Angelo Mastrandrea

Nella Valle Galeria, una vasta zona di campagna alla periferia ovest di Roma, non si sente più la puzza che per molti anni ha disturbato la vita quotidiana delle circa 30mila persone che ci abitano. Erano le esalazioni della vicina discarica di Malagrotta, che per più di 10 anni hanno continuato a impregnare l’aria di un odore acre nonostante fosse chiusa dal 2013, e dei due impianti di trattamento meccanico (TMB) dove la parte umida dei rifiuti viene separata da quella secca: i due impianti infatti hanno continuato a ricevere i rifiuti indifferenziati della città anche dopo la dismissione della discarica.
Alla fine del 2023 l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA) monitorò per 1.224 ore l’area attorno alla discarica. Risultò che per 283 ore la puzza era «da discernibile a forte», per altre 104 l’intensità «è stata stimata nella fascia tra odore forte e molto forte» e «in tre casi si è raggiunto l’ultimo livello della scala (da molto forte a intollerabile)». La scala ha valori da 0 a 5 (nessun odore, odore debole, discernibile, forte, molto forte e intollerabile). Adesso non si sente più nulla, anche perché i due impianti di trattamento meccanico sono rimasti chiusi per quasi due anni a causa di due incendi, e solo uno ha ripreso parzialmente a ricevere rifiuti da ottobre del 2024.
Sono scomparsi anche i gabbiani che volavano sui 2,5 chilometri quadrati di cave dismesse riempite di rifiuti e colline artificiali composte dalla spazzatura accumulata. Il comitato che chiedeva la chiusura della discarica arrivò a contarne fino a 30mila al giorno. Ora ce n’è al massimo qualche decina. Nel frattempo però l’ARPA ha accertato un inquinamento preoccupante e in aumento nel sottosuolo, dovuto al fatto che l’enorme mole di rifiuti sepolti a Malagrotta andando in putrefazione produce il percolato, un liquido derivato dalla decomposizione dell’umido. Le acque e il terreno intorno alla discarica sono risultate inquinate in modo pericoloso: ora il governo ha stanziato 250 milioni di euro per bonificare i terreni ed è in programma la costruzione di un sistema che contenga il percolato.
Quella di Malagrotta è la discarica più estesa d’Europa. Si presenta come una distesa di colline alte quasi un centinaio di metri, ricoperte di erba e di piante. Il fianco orientale è ricoperto di pannelli solari. All’interno ci sono strade e anche una fermata dei bus del trasporto pubblico per i dipendenti, e a girarci attorno si percorrono 5 chilometri.

L’ingresso principale della discarica di Malagrotta (Angelo Mastrandrea/il Post)

Pannelli solari lungo il perimetro orientale della discarica (Angelo Mastrandrea/il Post)
Fu chiusa nel 2013 dal sindaco Ignazio Marino e dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, entrambi del Partito Democratico, dopo anni di proteste degli ambientalisti e degli abitanti della zona, e dopo l’avvio di una procedura d’infrazione europea. Nel 2014 il proprietario Manlio Cerroni fu arrestato in un’indagine della procura di Roma e la Corte di giustizia europea condannò l’Italia perché a Malagrotta i rifiuti venivano portati senza essere differenziati e senza che la frazione organica venisse stabilizzata, cioè trasformata in compost in un apposito impianto.
La Regione Lazio invece fu sanzionata per non aver creato una rete adeguata per lo smaltimento dei rifiuti. A luglio del 2024 Cerroni è stato condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi di carcere per disastro ambientale colposo.

La discarica di Malagrotta vista dall’alto (Angelo Mastrandrea/il Post)

La discarica di Malagrotta (Angelo Mastrandrea/il Post)
– Leggi anche: Dieci anni dopo la chiusura, Malagrotta è ancora un problema ambientale
Dopo la chiusura della discarica rimasero aperti solo i due impianti di trattamento meccanico (TMB). Ogni giorno ricevevano 1.500 tonnellate di rifiuti indifferenziati, più o meno la metà di tutti quelli raccolti a Roma. Gli altri finivano negli impianti di Rocca Cencia, a est della città, e del Salario, nella zona nord. Nel giro di pochi anni, tutti e quattro gli impianti sono andati a fuoco, non è stato ancora chiarito come, con il sospetto che possano essere stati dolosi: sospetto che finora non è stato smentito né accertato.
I due impianti di trattamento meccanico di Malagrotta sono bruciati: il primo a giugno del 2022, il secondo a dicembre del 2023. La chiusura provocò molti problemi nella gestione della raccolta dei rifiuti a Roma. Dopo essere stati separati in questi impianti, i rifiuti di Roma vengono spediti in parte nell’inceneritore di San Vittore, l’unico del Lazio, e poi soprattutto in altre regioni o all’estero. Secondo i dati contenuti nel rapporto della commissione parlamentare, nel 2022 79mila tonnellate furono spostate in Lombardia, quasi 20mila in Emilia-Romagna, e altre 38mila in gran parte nei Paesi Bassi e per un 15 per cento in Germania.
A ottobre del 2024 uno dei due impianti di trattamento meccanico è stato riaperto, e ogni giorno vi vengono portate alcune centinaia di tonnellate di rifiuti indifferenziati raccolti dall’Azienda municipale ambiente (AMA) di Roma. Poi c’è la questione del termovalorizzatore, o inceneritore, cioè un impianto che brucia i rifiuti producendo energia: ci punta molto la giunta comunale di centrosinistra guidata da Roberto Gualtieri, ma è contestato per il timore che l’incenerimento liberi nell’aria sostanze inquinanti pericolose per la salute. Dovrebbe esserne costruito uno a Santa Palomba, nell’estrema periferia meridionale della città, e dovrebbe bruciare 600mila tonnellate di rifiuti all’anno. Il sindaco Gualtieri ha detto che i lavori per la costruzione inizieranno entro l’estate e l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2027, ma ci sono molte proteste, con ricorsi al Tribunale amministrativo regionale (TAR) e al Consiglio di Stato.
La Rete tutela Roma sud, un comitato locale, ha denunciato alla Commissione europea che nella valutazione di impatto ambientale «sono state totalmente ignorate diverse proposte alternative all’incenerimento» ed «è stato impedito il dibattito pubblico». Se la denuncia venisse accolta, l’Unione Europea potrebbe aprire una procedura di infrazione verso l’Italia.
Anche gli altri impianti industriali costruiti nella zona sono fermi. Il gassificatore che avrebbe dovuto trasformare i rifiuti in combustibile funzionò per un anno prima di essere fermato nel 2011 per quelli che vennero definiti “problemi tecnici”; la raffineria di carburanti che confinava con la discarica fu dismessa nel 2012 e l’inceneritore di rifiuti ospedalieri fu spento nel 2014. Rimangono solo alcuni depositi di carburante e un impianto che produce energia dai gas generati dalla decomposizione dei rifiuti sepolti. Di conseguenza si è quasi azzerato il traffico di camion che, all’epoca, faceva registrare picchi di polveri sottili (PM10) anche quattro volte superiori al limite giornaliero previsto dalla legge, che è di 50 microgrammi per metro cubo.

Un pannello elettronico che dovrebbe mostrare in tempo reale l’energia prodotta con il biogas e con il solare (Angelo Mastrandrea/il Post)

La discarica di Malagrotta (Angelo Mastrandrea/il Post)
«In questo momento l’aria qui è migliore di quella nel centro di Roma, il problema vero è l’inquinamento del sottosuolo», dice Maurizio Melandri, che abita in questa zona dal 1978 ed è stato per quasi trent’anni uno dei principali oppositori della discarica. «Ho partecipato alla prima manifestazione nel 1985 e sono stato tra i fondatori del comitato che ne chiedeva la chiusura», dice. Le proteste non riguardano tanto la presenza dei rifiuti nella zona, spiega Melandri, ma la gestione che ne hanno fatto negli anni le istituzioni e la mancanza di trasparenza nel comunicare eventuali problemi.
L’inquinamento del sottosuolo ha a che fare col fatto che durante il processo di putrefazione dell’enorme mole di rifiuti sepolti – che sono stati tra le 4 e le 5mila tonnellate al giorno per 45 anni – si formano da una parte gas che vengono utilizzati per alimentare l’impianto di trattamento meccanico e per produrre energia, e dall’altra il percolato. Una relazione della Commissione parlamentare sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti presentata a dicembre del 2024 ha documentato come il percolato finisca nel terreno e nelle acque sotto la discarica di Malagrotta, inquinandole.
Nel rapporto si legge che i monitoraggi dell’Agenzia regionale per l’Ambiente (ARPA) hanno accertato «una diffusa contaminazione da metalli e composti organici delle acque sotterranee, sia interne che esterne al polder», un sistema di contenimento costruito attorno al perimetro della discarica. Inoltre, «dal controllo dello scarico delle acque reflue presso l’impianto di percolato sono state riscontrate diverse non conformità e criticità dal superamento dei parametri chimici, microbiologici ed ecotossicologici». Nel Rio Galeria, un torrente che costeggia la discarica, sono stati trovati fitofarmaci e acido perfluoroottansolfonico (PFOS), pericolosi per l’ambiente e per la salute umana.
Secondo i dati dell’Azienda sanitaria locale (ASL) riportati dalla relazione della Commissione parlamentare sui rifiuti, l’inquinamento della discarica, sia nell’atmosfera che nei terreni, ha provocato molti danni alla salute dei cittadini che vivono nella zona. «Le patologie del sistema circolatorio (donne) e dell’apparato respiratorio (uomini) sono aumentate tra i residenti nell’area più prossima agli impianti. Per le patologie tumorali, si osserva tra le donne un eccesso di tumore della laringe e della mammella nelle zone più prossime. Rispetto a coloro che abitano lontano dagli impianti dell’area, i residenti più prossimi ricorrono più frequentemente alle cure ospedaliere, in particolare per malattie circolatorie, urinarie e dell’apparato digerente», si legge nella relazione.

La discarica di Malagrotta (Angelo Mastrandrea/il Post)

Un ingresso secondario della discarica di Malagrotta (Angelo Mastrandrea/il Post)
Il 19 gennaio in un’audizione davanti alla Commissione parlamentare sulle ecomafie Luigi Palumbo, amministratore giudiziario della E.Giovi, la società confiscata a Cerroni che gestisce gli impianti di Malagrotta, ha detto che «la discarica costa sei milioni l’anno, ricavi non ce ne sono» e che a febbraio i soldi sarebbero finiti. Per questo ha avviato una procedura di licenziamento per 42 lavoratori addetti all’estrazione del cosiddetto biogas e alla manutenzione delle aree verdi che ricoprono la discarica.
A marzo gli operai sono rimasti a casa, senza stipendio. Poi sono stati inseriti in un’altra società che è stata incaricata della manutenzione e sono tornati al lavoro. «La discarica non poteva rimanere a lungo incustodita perché c’era il rischio il percolato traboccasse oltre la barriera di contenimento, provocando un disastro ambientale» dice Gianluca Deiua, un sindacalista della Fit (Federazione italiana trasporti) Cisl che ha seguito i lavoratori licenziati. L’altro pericolo era che ci fossero esplosioni incontrollate del gas che si forma in continuazione dai rifiuti in decomposizione, che avrebbero potuto causare smottamenti nelle colline e riportare in superficie la spazzatura, con nuove esalazioni nell’aria.
Ora si sta completando il passaggio dall’amministrazione giudiziaria al Commissario per le bonifiche nominato dal governo, il generale dei carabinieri Giuseppe Vadalà. Poi cominceranno i lavori per coprire le colline con un materiale impermeabile, per costruire un impianto con 800 pozzi per l’estrazione del biogas prodotto dai rifiuti e per realizzare un sistema di contenimento del percolato. L’appalto è stato assegnato per 116 milioni di euro. Più in generale, per la bonifica della discarica di Malagrotta il governo ha stanziato 250 milioni di euro, presi dai fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) per risollevare l’economia italiana dopo la pandemia di Covid e dai fondi di coesione europei. Nella zona sarà costruito anche un biodigestore, cioè un impianto per decomporre la parte organica dei rifiuti.