Perché i ricercatori universitari sono in sciopero
Chiedono contratti stabili e contestano i progetti del governo Meloni, che vuole superare gli impegni presi da Draghi: il problema è sempre lo stesso, cioè i soldi

Nelle università italiane lavorano circa 35mila ricercatori e ricercatrici con un contratto a tempo determinato, pagati poco e rimasti per anni senza una concreta possibilità di stabilizzazione. Tanti e tante tra loro da mesi protestano contro il disegno di legge Bernini, dal cognome della ministra dell’Università e della Ricerca, che vorrebbe introdurre nuove categorie di ricercatori con contratti flessibili, in contrasto col tentativo di garantire più tutele promesso dal governo di Mario Draghi ma mai realizzato per mancanza di soldi. «La ricerca è un lavoro» è lo slogan scritto su alcuni striscioni appesi fuori dalle università lunedì 12 maggio, il giorno in cui è stato indetto uno sciopero dei ricercatori.
Negli ultimi 15 anni la quota di lavoratori precari nelle università è molto aumentata. Tra il 2009 e il 2010 era circa il 20 per cento di tutti i dipendenti, nel 2024 è arrivata al 42 per cento. La precarizzazione è iniziata con la riforma Gelmini del 2010, che sostituì i ricercatori a tempo indeterminato (RTI) con altre due categorie: i ricercatori a tempo determinato di tipo A (RTDA) e di tipo B (RTDB), questi ultimi destinati a essere assunti grazie al possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, una sorta di certificazione del ministero.
Oltre ai ricercatori a tempo determinato ci sono poi gli assegnisti di ricerca, ricercatori con contratti di collaborazione legati a un preciso studio o progetto. In teoria questi contratti dovrebbero favorire la formazione di giovani laureati verso l’assunzione definitiva o il passaggio alla ricerca nel privato; in pratica, gli assegnisti vengono usati per molti anni per portare avanti l’attività di ricerca dell’università a costi contenuti. Molti rimangono per oltre dieci anni senza certezze, spostandosi di università in università, con stipendi tra i più bassi d’Europa.
Nel 2022 il governo di Mario Draghi approvò l’attesa legge 79, che abolì i contratti dei ricercatori a tempo determinato di tipo A e B e gli assegni di ricerca per introdurre il cosiddetto contratto di ricerca, sempre a tempo determinato, ma con più tutele come la malattia, le ferie, la tredicesima mensilità, l’indennità di disoccupazione e più contributi per la pensione.
Negli ultimi due anni e mezzo sono successe due cose che spiegano come mai, nonostante questo, i contratti precari nelle università sono aumentati così tanto. La prima è che è arrivato il PNRR, che ha stanziato molti fondi per la ricerca universitaria permettendo di fare più contratti; la seconda è che il governo – cioè il governo Meloni, subentrato nel frattempo – ha continuato a prorogare le vecchie categorie contrattuali previste dalla precedente legge Gelmini, ritardando la riforma del governo Draghi. Solo dall’1 gennaio del 2025 le università non possono più proporre assegni di ricerca.

La protesta dei ricercatori precari a Torino (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
E anche se ora i nuovi contratti di ricerca sono operativi, le università ne possono fare pochissimi: paradossalmente, perché non hanno abbastanza soldi. Proprio per le maggiori tutele che garantiscono, i nuovi contratti costano molto di più dei precedenti: e i soldi stanziati dal PNRR sono sufficienti in media per circa quattro contratti in ogni università. Inoltre, negli ultimi due anni le leggi di bilancio approvate dal governo Meloni hanno ridotto il fondo di finanziamento ordinario delle università di 700 milioni di euro fino al 2027.
Considerato che nei prossimi mesi scadranno i contratti di migliaia di ricercatori a tempo determinato, i fondi sono sufficienti solo per pochi di loro e quindi non bastano per stabilizzare tutti i lavoratori precari.
La legge Bernini, chiamata anche “riforma del pre-ruolo universitario”, vorrebbe introdurre nuove categorie di ricercatori: per esempio il “professore aggiunto”, con un contratto da tre mesi a tre anni; i ricercatori con un contratto post-doc, simile al vecchio assegno di ricerca; borse di ricerca junior e senior, sempre a tempo determinato. Per la maggior parte di queste categorie si prevede che i contratti vengano attivati con una chiamata diretta di chi gestisce i fondi di ricerca nazionali o internazionali, senza bandi. La nuova riforma è il risultato del lavoro di un gruppo di esperti guidato da Ferruccio Resta, l’ex rettore del politecnico di Milano ed ex presidente della Conferenza italiana dei rettori.
All’inizio di febbraio l’associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani (ADI) ha presentato un esposto alla Commissione europea, per contestare la riforma: la riforma del pre-ruolo, sostiene l’associazione, è in contrasto con la stabilizzazione dei ricercatori precari legata al PNRR e promessa in quella sede alle istituzioni europee. Anche la CGIL ha presentato un esposto alla Commissione europea. Il 20 febbraio la ministra Bernini ha annunciato la sospensione della discussione parlamentare in seguito agli esposti.
Chi difende la riforma – i rettori, per esempio – sostiene che la possibilità di stipulare il solo contratto nazionale di ricerca limiti l’assunzione di ricercatori, perché quel contratto è poco flessibile e troppo costoso per le università. Secondo le assemblee di ricercatori e ricercatrici che negli ultimi mesi hanno organizzato proteste in tutta Italia, il problema è che i fondi per la ricerca sono semplicemente pochi e molti meno di quanti ne servirebbero.
Secondo i dati Istat relativi al 2022, l’Italia spende l’1,37 per cento del suo Prodotto Interno Lordo per la ricerca, a fronte di un obiettivo europeo del 3 per cento. Di tutti questi soldi, peraltro, solo il 35,6 per cento proviene da istituzioni pubbliche, con una partecipazione delle università limitata al 24,6 per cento. Tutto il resto riguarda centri di ricerca e fondazioni. La Germania supera il 3 per cento del PIL, così come l’Austria, il Belgio e la Svezia; la Francia supera il 2 per cento come la Danimarca, i Paesi Bassi e l’Irlanda.
Lunedì mattina in quasi tutte le università italiane sono stati organizzati presìdi a cui hanno partecipato ricercatori e ricercatrici, per chiedere la stabilizzazione, più fondi per le università e la cancellazione della riforma Bernini. Per molti ricercatori precari, però, è perfino difficile protestare: i loro contratti non prevedono tutele per chi si astiene dal lavoro.