La Cina ha scoperto il bluff di Trump

L'accordo appena annunciato è l'ennesima retromarcia con cui gli Stati Uniti hanno sospeso parte dei dazi senza ottenere nulla in cambio

Donald Trump alla Casa Bianca il 12 maggio 2025. (AP Photo/Mark Schiefelbein)
Donald Trump alla Casa Bianca il 12 maggio 2025. (AP Photo/Mark Schiefelbein)
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L’accordo raggiunto tra Stati Uniti e Cina per la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che si erano imposti a vicenda mostra quanto il metodo negoziale del presidente Donald Trump sia stato fin qui fallimentare nel produrre risultati positivi per gli Stati Uniti, fatto di minacce a vuoto, “bluff” malcelati e retromarce continue, che non portano ad alcun risultato se non a grossi danni economici.

In base alle condizioni concordate, infatti, gli Stati Uniti abbasseranno dal 145 al 30 per cento i dazi sulle merci cinesi. La Cina, che aveva imposto dazi speculari in risposta alle azioni di Trump, li abbasserà dal 125 al 10 per cento. La sospensione durerà 90 giorni, durante i quali i paesi continueranno a negoziare. Si torna quindi quasi al punto di partenza, con la differenza che nel frattempo è stato messo a repentaglio il commercio internazionale, sono molto rallentati gli investimenti, miliardi di dollari sono stati persi e l’unico risultato ottenuto è la promessa di continuare a parlare. Niente, di fatto.

Per gli Stati Uniti è l’ennesima resa unilaterale, decisa senza ottenere alcunché: prima il rinvio dei cosiddetti “dazi reciproci”, dopo il crollo delle borse mondiali, poi l’esenzione per smartphone e dispositivi tecnologici e quella per le automobili. Tutte decisioni che sono arrivate senza che la Cina abbia fatto un passo verso gli Stati Uniti, anzi, ostentando la sua fermezza: Trump ha detto più volte di aspettarsi una telefonata o un incontro con Xi Jinping, che non sono mai avvenuti.

Queste decisioni mostrano quanto male stiano già facendo e rischino di fare i dazi agli Stati Uniti, e dicono alla Cina e a tutti i paesi che si trovano ad affrontare simili negoziati che c’è un livello di sofferenza economica oltre il quale l’amministrazione non è disposta ad andare. Inoltre, mostrano l’improvvisazione della strategia dell’amministrazione, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che servirà per favorire il commercio.

L’«art of the deal», l’arte di fare affari di Trump che secondo i suoi sostenitori ha portato all’accordo con la Cina: questa è la copertina del comunicato stampa della Casa Bianca

I dazi a tre cifre che i due paesi si erano imposti a vicenda avevano costretto molte aziende statunitensi ad annullare gli ordini dalla Cina, a mettere in pausa i loro piani di espansione, a sopportare prezzi più elevati mentre cercavano di dirottare le proprie attività verso acquisti da altri paesi, come Vietnam e Messico, peraltro anche loro colpiti da dazi esorbitanti. Le aziende statunitensi avevano già iniziato ad avvertire i consumatori di problemi imminenti, come prezzi più alti e minore disponibilità di prodotti; gli stessi funzionari di Trump avevano iniziato a dire che i dazi contro la Cina erano «insostenibili». Trump ha resistito per un mese prima di fare marcia indietro.

Durante la conferenza stampa di lunedì a Ginevra che ha annunciato l’accordo, i delegati di Trump si sono rimangiati mesi di dichiarazioni ostili verso la Cina, la sua economia e il suo governo. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha detto: «Entrambe le delegazioni concordano sul fatto che nessuna delle due parti voglia davvero un decoupling», cioè il disaccoppiamento tra le due economie. Gli americani si sono comportati come se l’intera questione, da loro innescata, fosse stata un grosso malinteso: i decenni in cui la Cina avrebbe – a loro dire – «derubato» gli Stati Uniti sono stati apparentemente dimenticati, insieme alla necessità degli Stati Uniti di ridurre la propria dipendenza dalle importazioni cinesi e far tornare le industrie nel paese.

A sinistra il rappresentante per il Commercio Jamieson Greer; a destra il segretario al Tesoro Scott Bessent, in conferenza stampa a Ginevra il 12 maggio 2025 (Jean-Christophe Bott/Keystone via AP)

È stata dimenticata anche l’insolenza della Cina nel reagire ai dazi di Trump, che quando annunciò il grande ammasso di dazi generalizzati disse ai paesi colpiti: «Non adottate ritorsioni contro di noi e sarete ricompensati». La Cina ha ignorato il consiglio e ha fatto un’enorme ritorsione: è stata comunque ricompensata. Secondo il magazine The Atlantic, da questa storia «c’è una lezione da imparare per tutti coloro che Trump minaccia, che siano paesi, aziende o università: […] Trump è il classico bullo che brama la sottomissione ma teme il conflitto». Trump insomma fa la voce grossa sperando che basti a far arretrare i suoi interlocutori, per convincerli a desistere; quando questi reagiscono, emerge che così forte non è.

Questo atteggiamento si vede non solo nel commercio ma anche in altri casi recenti, come la battaglia contro le università americane, minacciate di tagli enormi se non daranno al governo potere di influenza su programmi, criteri di ammissione, ricerca e sulla gestione dei campus. L’amministrazione ha mostrato qualche tentennamento solo con Harvard, l’unico ateneo che si è apertamente opposto. E si è visto anche nel cambiamento del rapporto col Canada dopo che Mark Carney è diventato primo ministro: Carney ha insistito per mesi – e per questo ha vinto le elezioni – sul fatto che il Canada non sarà mai comprato o conquistato dagli Stati Uniti; Trump l’ha invitato nello Studio Ovale per un incontro dai toni cordiali in cui è sembrato accettare il suo rifiuto.