Il quorum dei referendum andrebbe ripensato?
Soltanto uno degli ultimi nove tenuti in Italia lo ha raggiunto, e in altri paesi non c'è oppure è più basso

In Italia negli ultimi nove referendum abrogativi, il tipo che propone cioè di eliminare del tutto o in parte una legge, il quorum è stato superato soltanto una volta, nel 2011, quando si votò sul nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. In 28 anni, insomma, i referendum abrogativi hanno raggiunto il loro scopo una sola volta, e le volte che il quorum non è stato raggiunto quasi mai è stata una questione di pochi punti percentuali: l’affluenza è stata tra il 24% e il 32% in sette casi su otto, e soltanto in quello del 1999 sull’abolizione della quota proporzionale della legge elettorale arrivò al 49,6%, mancando di circa 150mila voti.
Da tempo esponenti politici e politologi si chiedono quindi se l’affluenza molto bassa ai referendum abrogativi non renda opportuno modificare o eliminare la soglia del quorum, in modo da incentivare la partecipazione dell’elettorato e rendere i referendum uno strumento di democrazia diretta più influente ed efficace. È anche uno degli aspetti più presenti nelle discussioni che stanno anticipando il referendum del prossimo 8-9 giugno, in occasione del quale peraltro i partiti di governo stanno facendo campagna per l’astensione.
Secondo l’articolo 75 della Costituzione italiana il risultato dei referendum abrogativi è valido solo se partecipa al voto la maggioranza di chi ne ha diritto. Considerato che in Italia l’elettorato è formato da circa 50 milioni di persone, serve quindi che vadano a votare ai referendum abrogativi almeno 25 milioni di persone circa per renderne valido il risultato.
Nelle intenzioni degli autori della Costituzione il quorum era una condizione importante. L’idea che una parte dell’elettorato potesse arrivare a cancellare una legge regolarmente approvata dal parlamento fu anzi molto contestata dai costituenti. È così che si spiega l’introduzione di condizioni che limitavano di fatto i referendum abrogativi: sia la necessità di raccogliere almeno 500mila firme per proporli, sia il quorum per ritenerli validi.
L’Italia infatti è una democrazia rappresentativa: il potere di fare le leggi non appartiene direttamente ai cittadini, ma ai rappresentanti eletti. I referendum furono pensati da chi scrisse la Costituzione per inserire elementi di democrazia diretta in via eccezionale. Nel caso dei referendum abrogativi la necessità di superare un quorum di partecipazione richiede ai promotori di coinvolgere il maggior numero possibile di elettori ed elettrici.
Questo riduce il rischio che un’eventuale minoranza formata da gruppi di interesse possa esercitare un’influenza illegittima, cercando di modificare a proprio vantaggio specifici articoli di legge, peraltro su materie tecniche e controverse come lo sono spesso quelle dei referendum abrogativi. Il quorum ha peraltro ancora più importanza che in passato, in un certo senso, perché l’altra condizione introdotta in origine dai costituenti – la raccolta di almeno 500mila firme – è un requisito molto più semplice da ottenere oggi rispetto a quanto lo fosse nel 1948.
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Il presupposto di fondo nelle democrazie rappresentative è che una legge votata dai rappresentanti eletti esprima l’opinione della maggioranza dei cittadini. «Se una minoranza di cittadini potesse rovesciare facilmente la decisione del parlamento, questo vorrebbe dire che la maggioranza parlamentare non può garantire di rappresentare la maggioranza degli elettori», scrisse il saggista Mauro Piras nel 2016 sulla rivista Il Mulino.
Questo non significa che non sia legittimo discutere la soglia del quorum: chiedersi cioè quanta parte dell’elettorato sia sufficiente per cambiare una norma approvata da una maggioranza parlamentare. In molti paesi dell’Unione europea, per esempio, è sufficiente una maggioranza qualunque; il quorum di partecipazione nei referendum nazionali è invece previsto – con percentuali variabili tra il 30 e il 50 per cento – in Italia, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia e Slovacchia.
A parte le soglie del quorum, ci sono altre condizioni diverse tra un paese e l’altro, come descritto in un’analisi della Commissione di Venezia, un organo consultivo del Consiglio d’Europa che si occupa di rispetto dello stato di diritto. In Polonia e in Portogallo, per esempio, se l’affluenza non supera il 50 per cento il referendum è di fatto considerato consultivo e il suo risultato non vincolante.
In alcuni casi il quorum non è partecipativo, ma approvativo: la validità del voto del referendum dipende dall’approvazione di una percentuale minima predeterminata dell’elettorato. In Albania, per esempio, il quorum approvativo è pari a un terzo degli aventi diritto di voto. In Danimarca se il referendum riguarda un emendamento della Costituzione la proposta deve essere approvata almeno dal 40 per cento dell’elettorato; per altri casi la proposta è respinta se sono contrari la maggioranza dei voti nel referendum e almeno il 30 per cento dell’elettorato.
In una ricerca pubblicata nel 2009 due politologi portoghesi, Luís Aguiar-Conraria e Pedro Magalhães, analizzarono i dati di tutti i referendum svolti nei paesi dell’Unione europea dal 1970 al 2007. Scoprirono che l’esistenza di un quorum di partecipazione si rifletteva tendenzialmente in un aumento dell’astensione di oltre dieci punti percentuali. Il quorum induceva in particolare le persone «che si oppongono ai cambiamenti dello status quo e si aspettano di essere in minoranza ad astenersi piuttosto che a votare».
In passato la Commissione di Venezia ha espresso in diversi pareri la raccomandazione di evitare disposizioni sul quorum nei referendum. In un Codice di buona condotta sui referendum pubblicato nel 2006 scrisse che stabilire un quorum di partecipazione «assimila gli elettori che si astengono a quelli che votano no», e rende inutili i voti espressi per una proposta che alla fine non raggiunge il quorum. Induce inoltre gli avversari della proposta sottoposta a referendum a incoraggiare l’astensione, che «non è sensato per la democrazia».
Una delle possibili ragioni dell’astensione nei referendum della storia italiana recente, indipendentemente dalla presenza del quorum, è anche il fatto che gli argomenti dei quesiti di solito interessano soltanto determinate categorie di cittadini. Quando invece riguardano «questioni di rilevanza veramente generale (il divorzio del 1974, l’aborto del 1981 e la scala mobile del 1985) la gente accorre e il quorum sale a vette dal 79 all’87 per cento», hanno scritto la settimana scorsa sulla Stampa Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio.
Secondo loro avrebbe senso abbassare di molto o eliminare del tutto il quorum, modificando l’articolo 75 della Costituzione. E non sarebbe niente di sconcertante, se si considera che la stessa Costituzione già stabilisce nell’articolo 138 che non sia richiesto alcun quorum per un altro tipo di referendum: quelli costituzionali, come quello del 2016 sulla riforma del Senato promossa dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi.
È vero che un abbassamento o un’eliminazione del quorum attribuirebbe grande influenza alla minoranza di cittadini che vanno a votare ai referendum. Ma la maggioranza, secondo Caselli e Barosio, «non potrebbe lamentarsi di questa conseguenza in quanto sarebbe essa stessa ad averla provocata con il suo disinteresse per la cosa pubblica (o, usando la parola giusta, con la sua pigrizia)».
Da tempo si discute anche di un’alternativa all’eliminazione o all’abbassamento del quorum: la possibilità di introdurne uno “variabile”, calcolato sulla base dell’affluenza delle elezioni politiche precedenti, cioè la maggioranza di chi aveva votato in quell’occasione. Questo renderebbe «più paritario il confronto elettorale», disse al Post Alfonso Celotto, giurista e docente di diritto costituzionale all’Università di Roma Tre, dopo il fallimento dei referendum sulla giustizia del 12 giugno 2022, i più recenti referendum abrogativi e i meno partecipati della storia repubblicana.