Struggersi di nostalgia per i tronisti

«Tutti i pomeriggi dalle 14:45 mi posizionavo davanti alla televisione e per circa un’ora e un quarto mi lasciavo ipnotizzare. I tronisti sono la mia madeleine e le giornate trascorse davanti alla tv a vedere “Uomini e donne", le mie “domeniche mattina a Combray”»

Lo studio di “Uomini e donne" durante le prove, con la conduttrice Maria De Filippi sulla sinistra (via Wikimedia)
Lo studio di “Uomini e donne" durante le prove, con la conduttrice Maria De Filippi sulla sinistra (via Wikimedia)
Paolo Valoppi
Paolo Valoppi

Nato a Roma nel 1990, lavora come editor per Einaudi Stile Libero. Precedentemente è stato editor e redattore per Voland e 66thand2nd. Il suo romanzo d’esordio, Mio padre avrà la vita eterna ma mia madre non ci crede, è stato pubblicato da Feltrinelli.

Caricamento player

«Volevo essere il più bello di tutti. E per un po’ ci sono riuscito», ha ammesso nel 2022 Costantino Vitagliano, uno dei tronisti più popolari di Uomini e donne, in un’intervista su Vanity Fair che mi è capitato di leggere, avidamente, soltanto poco tempo fa. Uomini e donne, per chi non lo sapesse, è il dating show condotto da Maria De Filippi su Canale 5 dal 1996, pensato in principio come spazio per dibattere su temi relativi alle differenze tra gli uomini e le donne e divenuto successivamente un programma per incontri e nuovi rapporti sentimentali, in cui da una parte ci sono i tronisti – i corteggiati ufficiali, femmine o maschi – e dall’altra i corteggiatori.

È una trasmissione nazionalpopolare che per un certo periodo della mia vita ho seguito con devozione quasi religiosa e a cui l’affermazione di Costantino mi ha fatto ripensare. Quella confessione che mescolava tracotanza, megalomania e rammarico mi ha riportato con la memoria a una stagione della mia giovinezza, tra il 2003 e il 2010, in cui, di ritorno da scuola, tutti i pomeriggi, a partire dalle 14:45 mi posizionavo davanti alla televisione e per circa un’ora e un quarto mi lasciavo ipnotizzare, insieme a tantissimi coetanei, da ogni nuova puntata di Uomini e donne. Non ero il solo, come attesta l’Accademia della Crusca:

«Il termine “tronista” si è diffuso con il significato di “partecipante a uno spettacolo televisivo che si presta a essere messo al centro dell’attenzione, su un trono, divenendo oggetto di corteggiamento”, con riferimento alla trasmissione pomeridiana “Uomini e donne”.

Come in Matrix, in cui attraverso uno spinotto neuronale inserito chirurgicamente alla base del cranio i protagonisti vengono connessi in una simulazione immersiva della realtà, io, tramite Canale 5, facevo il mio ingresso nello studio celeste di Maria De Filippi e in un universo fatto di drammi sentimentali da operetta, gelosie, scazzi, atteggiamenti machisti, amori tragici, talvolta effimeri, copioni che si ripetevano spesso uguali a sé stessi e popolato, soprattutto, da un pubblico caratterizzato da risatone stonate, commenti acidi, sguardi divoratori e una galleria di frasi pronunciate come slogan astiosi o benevoli: «Stai qui solo per le telecamere», «Sei falso!», «Chi ti credi di essere?», «Si vede che sei una persona pulita», «Ti meriti il meglio», «Siete una coppia bellissima». Una galassia in cui protagonisti, come ha scritto Francesco Pacifico nel 2015 su Internazionale, in un articolo intitolato Maria De Filippi, l’amica geniale, «partono, parlano, si vantano, si accusano a vicenda, non si capisce una mazza».

Ricordo decine di puntate vissute col fiato sospeso insieme ad amici e amiche, nell’ansia di scoprire se Giorgio Alfieri avrebbe scelto (come compagna con cui iniziare una relazione al di fuori del programma) Martina Luciani e quale sarebbe stata la sua risposta, o quali sarebbero stati i tronisti della dodicesima o tredicesima edizione, o se l’esterna (si chiamano così gli appuntamenti tra concorrenti) tra Salvatore Angelucci e Paola Frizziero si sarebbe conclusa con un bacio. Guardavamo, fremevamo, speravamo, ci emozionavamo. Ma cos’era, esattamente, a piacerci di Uomini e Donne? Me lo sono chiesto timidamente quando avevo quindici anni e continuo a chiedermelo, con ancora più insistenza, ora.

– Leggi anche: Ma come diavolo mi sono vestito in tutti questi anni a Venezia?

Era una questione di curiosità, voyeurismo emotivo, di pornografia dei sentimenti? Di godere cioè della possibilità di osservare da vicino dinamiche intime, legami amorosi, conflitti personali – in un’età, tra l’altro, in cui si inizia il proprio apprendistato con le relazioni sentimentali? O aveva a che fare col senso di superiorità e il giudizio morale? Nel valutare le scelte altrui, la superficialità, il sessismo e i comportamenti impulsivi dei concorrenti (sta prendendo in giro tutti, ma una così che ci trova in quello?, ma come parla?, ma questa cosa è grave!), mi sentivo più maturo, più saggio, mi distinguevo? O rappresentava, semplicemente, una fuga dalla realtà? Sicuramente la mia – la nostra – devozione per Uomini e donne aveva a che fare con ognuna di queste sfere, e con il piacere che mi procuravano. Ma, per quanto mi riguarda, c’era anche dell’altro, e per spiegare cosa devo fare ricorso a un episodio della mia tarda adolescenza.

Avevo da poco compiuto diciotto anni e giocavo in una squadra di calcio nel quartiere Tor di Quinto di Roma, insieme a ragazzi che provenivano da ogni zona della città. Quello considerato più bravo era uno alto, filiforme, con dei capelli biondi e compatti come quelli del personaggio di un manga (somigliava a Schneider di Holly e Benji). Il riconoscimento doveva infondergli grande autostima e disinvoltura. Fu lui che una sera, nello spogliatoio, al termine di un allenamento come tanti, mentre mi stavo rivestendo dopo essermi fatto la doccia, si rivolse a me dicendomi: «‘ndo cazzo vai co’ quei boxer a quadretti? Non lo sai che alle pischelle je piacciono gli slip?». Nonostante a quel commento seguirono le risate, lo scherno e l’approvazione degli altri compagni di squadra, non mi sentii umiliato, emarginato, messo in mezzo. Anzi, ero estasiato. Ammaliato.

Mi affascinava il pensiero che qualcuno potesse avere le idee tanto chiare in fatto di mutande e potesse considerare il suo mondo come l’unico mondo possibile: un universo in cui le pischelle approvavano soltanto gli slip di Calvin Klein. Quella sfrontatezza, quella strafottenza, quella postura impudente e certa, facevano da contrappeso alla mia adolescenza ricolma di insicurezze, fragilità, ripensamenti. Perciò, quando alcuni anni dopo, facendo zapping in tv e sostando su Canale 5, scoprii che quel ragazzo, quel calciatore mancato con cui avevo amministrato il centrocampo della stessa squadra per una stagione, era diventato un tronista di Uomini e donne, non mi stupii più di tanto. Era come se dentro di me l’avessi sempre saputo.

Aveva tutti i requisiti per essere un candidato eccellente per il programma di Maria De Filippi. In particolare, aveva quella dote che, come avrei capito col tempo, rendeva ammirabili ai miei occhi certi tronisti: la capacità di sentirsi degli eletti, la convinzione granitica che la vita gli avesse riservato qualcosa di straordinario e nulla potesse fargli del male. Erano, o almeno si presentavano, come invincibili, e in quanto tali destinati a esserlo per sempre. Messa in questi termini, anche io, nella mia natura spesso paralizzata dai dubbi, desideravo essere un tronista.

Nonostante fossero tipi maschili molto distanti da me per vissuto, formazione, ambizioni, gusti, in quegli anni contemplavo i tronisti con il medesimo sguardo ammirato con cui, contemporaneamente, guardavo gli alunni più popolari del mio liceo. Più grandi, più belli, più disinvolti. Quei ragazzi stavano alla mia scuola come i tronisti stavano allo studio di Maria De Filippi. Da una parte c’erano i Seth Cohen e i Justin Bieber delle mie superiori, e dall’altra quegli adoni del trash. Erano, nella mia testa, in modo diverso, rappresentanti di qualità desiderabili (bellezza, attraenza, forza, sicurezza, carisma, autostima). Modelli a cui io, fissandoli sempre da una certa distanza, conferivo quella «esistenza auratica» che Walter Benjamin attribuisce alle opere d’arte – sto veramente utilizzando L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica per parlare di Uomini e donne? Per quanto potessero essere narcisisti, egoisti, sprezzanti, cafoni – in fin dei conti chi di noi non lo è almeno ogni tanto? – finivo sempre per idealizzarli. Come se a quelle creature, che godevano di adulazione e consenso e che il mio immaginario di adolescente aveva cristallizzato in quanto predestinati, ogni cosa fosse perdonata.

Negli anni successivi ho continuato a monitorare a distanza le vite dei personaggi di Uomini e donne che mi avevano accompagnato nell’adolescenza e nel periodo subito successivo. E allo stesso modo, in effetti, ho vigilato sulle parabole dei miei coetanei di scuola più popolari. Lo facevo per accertarmi che la loro stella fosse ancora fulgida, che fossero come li avevo lasciati, per verificare quali percorsi una carriera potesse prendere dopo essere stata ben piantata sul trono di uno dei programmi più popolari della televisione italiana. Ne controllavo i profili Instagram, riguardavo su YouTube i video dei loro momenti più significativi, le litigate col pubblico, gli screzi con le corteggiatrici, le scenate di gelosia, gli amori e contemporaneamente leggevo articoli di testate online dai titoli “Che fine ha fatto Gionatan Giannotti di Uomini e Donne?”, “Serena Enardu: ultime notizie, chi è, età, biografia”, “Cosa fa oggi Carmine Fummo, ex tronista?”.

C’era chi aveva mantenuto alta la propria popolarità lavorando come dj o sfruttando la propria notorietà per riempire discoteche e locali; c’era chi aveva partecipato ad alcuni reality show ed era arrivata fino alla fine, guadagnando ulteriore visibilità; c’era chi partecipava ancora come opinionista alla stessa trasmissione di cui era stato tronista. In questi casi gioivo: i miti della mia adolescenza non si erano crepati.

Ma c’era anche chi, divenuto calvo dopo aver avuto una fulgida chioma, si era sottratto al mondo dello spettacolo e sui social si definiva «consulente strategico di successo per imprenditori e aziende»; c’era chi dopo aver avuto problemi con l’Agenzia delle Entrate aveva deciso di abbandonare la televisione e occuparsi di noleggio barche, charter, yacht; c’era chi lavorava in una palestra come massaggiatore e personal trainer. Per loro, nonostante si dicessero felici e sereni, provavo un sussulto di malinconia (e ripensavo all’Angelo Bernabucci in Compagni di scuola: «Guardate com’eri, guardate come sei, me pari tu zio»). Un sentimento che diceva molto di me, non di loro. Quelle storie, quelle traiettorie – così come quelle dei compagni del liceo che ora mi parevano più dimessi, più vulnerabili, più normali ­– avevano il sapore di un tempo passato. Di una stagione che scompare, diradandosi, e che non tornerà mai più.

– Leggi anche: Il fascino discreto delle grandi pulizie

Mentre scrivevo questo testo ho provato a contattare su Instagram uno dei tronisti che in assoluto ho amato di più – di cui, per motivi di privacy, non rivelerò il nome. Un ragazzo che aveva sempre la battuta pronta, impregnato di quella miscela fatta di gel per capelli, tatuaggi strategici, denti sbiancati e una parlantina irresistibile. Gli ho fatto intendere che non mi interessavano i pettegolezzi, i retroscena, i vecchi rancori, e che avrei desiderato soltanto incontrarlo per vederlo da vicino e fare due chiacchiere. «Va benissimo», mi ha risposto poche ore dopo. Ero esaltato. Con quell’incontro potevo ridurre, simbolicamente, la distanza che per anni c’era stata tra me, seduto davanti alla televisione, e i concorrenti di Uomini e donne in studio, e provare a capire cosa ci fosse in loro di tanto magnetico. Potevo anche provare a chiedergli, finalmente, se i tronisti portassero i boxer o gli slip.

Quando però, qualche giorno dopo, come mi aveva indicato lui, gli ho domandato dove ci saremmo potuti vedere, non mi ha risposto. E così ai successivi cinque o sei messaggi. Ho aspettato una settimana e poi, in punta di piedi, mi sono rifatto vivo: «Ciao, pensi che sarebbe ancora possibile…». Nulla. Silenzio. Prima di perdere definitivamente la dignità e tornare alla carica, ho chiesto un parere alla mia fidanzata. «Al prossimo messaggio è stalking», mi ha liquidato. E l’ho chiusa lì. Offeso. Dispiaciuto. Illuso. A un passo dal traguardo. Ma poi, a delusione smaltita, ho convenuto che forse era giusto così. Nell’epica di Uomini e donne che avevo costruito nella mia testa – e che mi imponeva di mirare da una certa distanza gli eroi e le eroine della trasmissione – quel rifiuto rappresentava il giusto epilogo. Come se di fronte a una merce rara, un cartello di divieto mi avesse appena ammonito: NON TOCCARE, accrescendone il valore. L’aura dei protagonisti del programma di Maria De Filippi era integra. In ogni caso, mi consolai, se non avevo potuto incontrare di persona un tronista, potevo almeno vantarmi di essere stato ghostato da lui.

E così, se a sedici anni la mia fascinazione per Uomini e donne aveva avuto a che fare con la tendenza a idealizzarne i testimonial – come se il vero piacere, per me, non risiedesse tanto nella sostanza dei tronisti, quanto nelle immagini di quelli che a tutti gli effetti erano degli inattingibili oggetti del desiderio – oggi il mio sguardo indulgente e affettuoso verso quella trasmissione e i suoi attori può essere ridotto a una forma leggera di nostomania; al ricordo malinconico di un’epoca in cui la televisione era il mezzo di comunicazione più potente di tutti e in cui bastava essere belli e saper dire «ciao» in modo sexy per essere considerati un’icona. Un’epoca che disapprovo per molti dei suoi tratti, sia chiaro, ma che comunque coincide con gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza. I tronisti sono, in un certo senso, la mia madeleine e le giornate dei primi anni Duemila trascorse davanti alla tv, le mie «domeniche mattina a Combray».

Per regalarmi ancora uno stantuffo di quel momento della vita, poco tempo fa sono andato su un sito in cui era possibile acquistare video di auguri e di saluti personalizzati di personaggi famosi, dove le tariffe andavano dai quindici ai cento euro, a seconda delle celebrità. Tra loro c’era anche Costantino Vitagliano. Per 30 euro avrei potuto ottenere un filmato con cui stabilire un punto di contatto, seppur effimero, di una manciata di secondi, con «il più bello di tutti». Ho compilato un modulo, ho scritto un messaggio che a quanto pareva sarebbe stato letto dal VIP prescelto, ho pagato e ho iniziato ad attendere. Poi, dopo un giorno e mezzo, ho ricevuto una email che mi avvisava che il mio contenuto era pronto. Era come stessi per rivedere, dopo tanto tempo, un amico che avevo perso di vista. Ho aperto la posta elettronica, ho scaricato il filmato e mi sono ritrovato davanti al fermo immagine di un uomo maturo, con la barba grigia, corta, i capelli pettinati all’indietro cosparsi di gel, gli occhi blu, i bicipiti puntellati da tatuaggi e una canotta nera che gli copriva il torace. Era ancora lui. Avevo speso bene i miei soldi. Ho avvicinato il pollice allo schermo, ho aumentato la luminosità e con un misto di commozione ed euforia ho premuto play, teletrasportandomi ancora una volta, l’ultima, nello studio celeste di Canale 5: «Ciao, Paolo! Sono Costa, il tuo tronista preferito…».

– Leggi anche: Quando la mafia tentò di uccidere Maurizio Costanzo

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su