Sappiamo poco sui malanni dei gatti

Sul piano clinico sono meno studiati dei cani: per ragioni storiche, culturali e pratiche

Un gatto viene sollevato da una veterinaria che lo estrae da una gabbietta
Un gatto in una clinica veterinaria a Haddington, Scozia (Jeff J Mitchell/Getty Images)
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In Italia tra gli animali domestici i gatti sono più numerosi dei cani: 10,2 milioni contro 8,8. Lo stesso vale nella maggior parte dei paesi europei, secondo un rapporto del 2024. Eppure da un punto di vista clinico sappiamo relativamente poco sui gatti, meno di quanto sappiamo sui cani. Sottoporli a esami diagnostici e studi di laboratorio è infatti meno agevole e meno frequente di quanto lo sia per i cani.

Il risultato è che quando capita che i gatti domestici si ammalino, spesso i loro proprietari se ne accorgono tardi e notano con difficoltà eventuali anomalie nei loro comportamenti.

La giornalista scientifica del New York Times Emily Anthes ha sollevato il tema in un recente articolo che parte dalla sua storia personale. Nel 2024 portò la sua gatta Olive dal veterinario per scrupolo, vedendola più pigra e nervosa del solito. Non si aspettava la diagnosi di grave anemia che il veterinario fece notando subito le gengive pallide e il battito cardiaco accelerato, e dopo diverse visite i veterinari conclusero che il sistema immunitario di Olive stava attaccando i globuli rossi, ma non riuscirono a stabilirne la causa né a trovare una cura appropriata.

Un internista suggerì ad Anthes di prendere in considerazione un intervento chirurgico per asportare la milza della gatta, considerando probabile che i globuli rossi venissero attaccati in quell’organo. Un altro veterinario le spiegò che è un tipo di intervento noto nei pazienti umani (splenectomia), ma che in medicina veterinaria ci sono pochi dati in materia, soprattutto nei gatti. Olive morì pochi mesi dopo essersi ammalata, prima che la sua proprietaria finisse di valutare pro e contro dell’operazione.

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Negli ultimi decenni la medicina veterinaria ha compiuto enormi progressi nella cura degli animali domestici. Alcuni limiti ancora presenti sono tuttavia eredità di un approccio storicamente più concentrato sui cani che sui gatti. Negli studi di tipo veterinario i gatti continuano ancora oggi a rappresentare un interesse minore rispetto al cane, conferma Alessia Giordano, medica dell’ospedale veterinario dell’Università degli studi di Milano e docente di patologia clinica al dipartimento di medicina veterinaria e scienze animali.

Una veterinaria controlla le gengive e i denti di un gatto

Una veterinaria volontaria visita un gatto domestico che viveva in un appartamento danneggiato da un terremoto a Hatay, in Turchia, il 22 febbraio 2023 (Mehmet Kacmaz/Getty Images)

Per lungo tempo nella medicina veterinaria i gatti furono sostanzialmente assimilati a cani di piccola taglia, adattando esami, cure e trattamenti pensati per i cani. Anche negli studi di veterinaria gli animali domestici di riferimento furono a lungo i cani, prima che le differenze con i gatti diventassero via via più evidenti e importanti nella pratica clinica. Oggi è noto che una cura utile per gli uni può essere inutile o dannosa per gli altri, dato che le due specie metabolizzano diversamente i farmaci (alcuni molto comuni per cani sono tossici per i gatti).

Secondo Giordano una delle possibili spiegazioni di questa tendenza storica è il tipo di rapporto familiare più stretto, di compagnia ma anche di lavoro, che i cani hanno da migliaia di anni con gli esseri umani, per effetto di un diverso processo di addomesticamento. Una preferenza simile nella letteratura scientifica emerge anche riguardo ai cavalli, considerati storicamente il modello di base per gli studi anatomici sugli animali da lavoro di grossa taglia, inclusi i bovini.

La priorità storicamente attribuita ai cani nella ricerca ha anche ragioni pratiche: i gatti sono visitati dai veterinari meno spesso dei cani, come mostrano diversi dati e ricerche anche negli Stati Uniti, oltre che in Europa. In un anno gli ingressi di gatti domestici nel laboratorio di analisi gestito da Giordano sono mediamente meno della metà degli ingressi di cani domestici, nonostante i gatti siano più numerosi.

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I cani domestici sono considerati in generale meno indipendenti dei gatti e quindi più bisognosi di cure mediche. Uscendo più volte al giorno, sono normalmente esposti a rischi ambientali con cui i gatti che vivono in casa vengono meno spesso a contatto. Rispetto al cane, soprattutto, «il gatto è molto meno trattabile, quindi meno manipolabile: è più difficile fargli qualsiasi cosa», spiega Giordano. Il che rende portarlo dal veterinario un’esperienza tendenzialmente più stressante, sia per il gatto sia per i suoi proprietari.

Anthes, che ha anche un cane, ha scritto che lei e suo marito sono di solito molto attenti e ricettivi verso le necessità del cane, e che entrambi si sono molto colpevolizzati per non esserlo stati altrettanto con la gatta. Ma accorgersi che un gatto sta male è più complicato, indipendentemente dall’attenzione dei suoi proprietari, perché i gatti sono anche più bravi a mascherare i sintomi.

I cani artritici spesso zoppicano in modo evidente, per esempio, mentre molti gatti con la stessa patologia non lo fanno, ha detto ad Anthes Karen Perry, chirurga ortopedica veterinaria specializzata nei felini presso la Michigan State University. In casi del genere è possibile intuire che non stanno bene perché magari sono più nervosi quando vengono presi in braccio, o perché balzano sul divano meno spesso del solito.

Un altro motivo per cui sappiamo più cose riguardo alle patologie nei cani che nei gatti è che il cane è più utilizzato anche come modello nella ricerca sulle patologie umane, segnala Giordano. Rispetto al gatto è una specie che si è evoluta più a stretto contatto con gli esseri umani, venendo allevata, selezionata, addestrata e addomesticata in molti modi diversi. E tutto questo ha determinato una maggiore variabilità genetica rispetto al gatto, motivo per cui è considerato un modello migliore per le patologie umane.

Molto dipende dalla patologia, aggiunge Giordano, citando alcune eccezioni recenti: «per il Covid il gatto è stato utilizzato più del cane, perché il coronavirus felino è stato un ottimo modello per studiare la patologia negli umani, e viceversa». La predilezione per i cani potrebbe derivare in parte anche da un pregiudizio cognitivo: «si preferisce come modello perché alcune patologie del gatto non sono sufficientemente studiate rispetto a quelle del cane».

Un’altra ragione che limita la ricerca sui gatti nella medicina veterinaria è la scarsa compatibilità tra il loro comportamento e la possibilità di effettuare esami ripetuti. «Se devo studiare una patologia e controllarla nel tempo, è più facile con un cane che non un gatto, perché è più facile fargli dei prelievi di sangue e visitarlo», spiega Giordano. Questo limite si riflette anche nelle terapie, e rende più difficile in generale curare i gatti rispetto ai cani.

I cani con tumori, per esempio, spesso sono portati periodicamente dal veterinario per essere sottoposti a cicli di chemioterapia. La stessa cosa nei gatti molto spesso non è possibile, dice Giordano, «perché un gatto non si fa iniettare un farmaco che deve essere inoculato per lunghi periodi e ogni volta molto lentamente, per cui deve rimanere immobile per due o tre ore». È possibile sedarli, ma è un sistema più scomodo e più costoso, specialmente sul lungo periodo.

Un gatto disteso su un lettino in un ambulatorio veterinario durante un prelievo di sangue

Un gruppo di medici veterinari effettua un prelievo del sangue su un gatto in un ospedale veterinario specialistico a Palm Beach Gardens, Florida (AP Photo/Wilfredo Lee)

Ultimamente la situazione nella ricerca sui gatti è migliorata, seppure lentamente, ha scritto Anthes sul New York Times. Alcuni istituti e scuole di medicina veterinaria hanno aumentato in particolare gli investimenti nella ricerca sulle cause genetiche e ambientali delle malattie dei gatti.

Una delle ricercatrici più attive in questo ambito è Elinor Karlsson, genetista presso la UMass Chan Medical School e il Broad Institute, in Massachusetts. Anche Karlsson, come Anthes, ha avuto un gatto che morì dopo aver sviluppato una rara malattia autoimmune, causa di anemia. Quell’esperienza la portò ad approfondire gli studi sul genoma felino, e nel 2024 ha presentato un progetto scientifico internazionale comunitario, il Darwin’s Cats, con l’obiettivo di estendere le conoscenze sulle basi genetiche della salute e del comportamento dei felini.

Per sviluppare il progetto è stato necessario pensare anche a metodi alternativi di raccolta del DNA, perché a differenza dei cani i gatti non sono molto collaborativi nemmeno quando si tratta di donare saliva. Karlsson e i suoi colleghi hanno quindi messo a punto un sistema che permette di sequenziare il DNA utilizzando pochi peli raccolti con un pettine. I dati raccolti attraverso il progetto potrebbero servire a migliorare la nostra comprensione dei gatti e dei loro problemi di salute.