Io sono la fabbrica
«Ho quasi quarant’anni, ho trascorso i primi venti fuori (a eccezione di una visita scolastica), poi dieci dentro, e altri dieci fuori. Eppure non so cosa pensare del petrolchimico»

Se si guarda da Google Maps il polo petrolchimico della mia città, ci si accorge che è grande il doppio della città. Significa che se chiedo a un mio concittadino a caso, quello di sicuro ha un’idea precisa di ciò che lo stabilimento rappresenta per questo posto.
Ho quasi quarant’anni, ho trascorso i primi venti fuori (a eccezione di una visita scolastica), poi dieci dentro, e altri dieci fuori. Eppure non so cosa pensare del petrolchimico.
Sono nato e cresciuto all’ombra delle torri e delle ciminiere, in una delle prime case che si trovano uscendo dallo stabilimento le cui strutture, al tramonto, creano un panorama che ho sempre dato per scontato. Perché è vero che ci facciamo un’idea del mondo sulla base di ciò che vediamo da piccoli: io credevo che i soldi esistessero solo frequentando la fabbrica, che di notte una Manhattan di luci brillasse come una seconda città, e che quelle palline in spiaggia, che sembravano fregula, fossero parte naturale del paesaggio. Per poi scoprire, da grande, che non era pasta cruda ma scarti di lavorazione del polietilene gettati a mare decenni prima.
Non ho una posizione netta su ciò che l’industria ha fatto al mio territorio, nonostante sia l’ultimo delle tre generazioni che ci hanno lavorato (ossia tutte quelle possibili): sono stati dipendenti entrambi i miei nonni, poi mio padre e infine io. Tutto mi fa pensare che, senza l’industria, io proprio non esisterei. I miei quattro nonni erano originari di quattro paesi diversi, attirati qua dalla promessa di uno stipendio sicuro. Senza quella speranza di benessere, non si sarebbero mai incontrati, i miei genitori non sarebbero mai nati, e non ci sarei stato io che, una volta finite le superiori, ho varcato quel cancello quasi per inerzia.
Prima che arrivasse la chimica pesante e gli impianti ridisegnassero l’orizzonte, qua c’era poco da fare per guadagnarsi due lire. Pesca, un po’ di agricoltura e pastorizia. Poi sono arrivati quelli dal continente che sapevano cosa fare dei soldi a fondo perduto regionali e della Cassa per il Mezzogiorno. In cambio hanno dato stipendi sicuri, una novità chiamata quattordicesima e le colonie estive per i figli. Quasi non c’era scelta.
Quando dico che vengo da una città con un petrolchimico di queste dimensioni, la gente dà per scontato che io abbia un’opinione netta. Gli idealisti si aspettano che racconti storie di morte e devastazione; i pragmatici che difenda quei posti di lavoro creati dal nulla. Si dà per scontato che io prenda posizione: o sei contro la fabbrica che uccide, o sei a favore della fabbrica che dà lavoro. Ma parlano con la persona sbagliata.
E dire che ho opinioni granitiche su tutto: dalla politica americana al calcio, dalla pizza a ruota di carro alle magliette col collo a V. So sempre scegliere tra montagna o mare, cane o gatto, libro o ebook. Ma sul petrolchimico, resto un agnostico irriducibile.
So che le ricadute positive sul territorio sono state enormi: la città è cresciuta in popolazione ed estensione, ha offerto possibilità di carriera senza dover emigrare, e un nuovo significato per la parola “straordinario”. L’imprenditore che negli anni Sessanta amministrava il petrolchimico ha persino finanziato l’operazione per trattenere Gigi Riva al Cagliari. Lo stabilimento, in qualche modo, ha fatto vincere uno scudetto.
Ma è innegabile che abbiamo subito la stigmatizzazione di un territorio e la deturpazione del paesaggio costiero che allontana i turisti, e che l’industria abbia creato danni a lungo termine alla biodiversità marina e terrestre. Nonché una dipendenza psicologica dal posto fisso legata a una monocultura industriale. Oltre ad aver impresso nelle menti le parole “male necessario”. Basta passeggiare nel cimitero per vedere lapidi con date di nascita e di morte troppo vicine.
E so bene che non è una coincidenza se la mia città ha una spiaggia non balneabile, mentre pochi chilometri a ovest c’è il paradiso in cui la Bilboa filmava le sue pubblicità e a est quello dove la Disney ha girato La Sirenetta. E che, così come i nati oggi in Italia hanno già una quota di debito pubblico sulle spalle, i nati nella mia città finiranno di pagare un debito ambientale di prestiti chiesti dalle generazioni precedenti.
Essere un figlio del petrolchimico significa conoscerne le esalazioni già da bambino. «È l’odore del pane», avevo sentito dire a una mamma fuori da scuola. E a otto anni non capivo perché il pane dovesse puzzare così.
Non ho un’idea lucida, nonostante sia tra quelli che hanno più elementi per farsela. La mia città si divide grossomodo in due fazioni: chi parla della zona industriale senza esserci mai entrato, e chi invece ci lavora e non ne parla perché non ne ha interesse. Io potrei fare entrambe le cose, ma è come quell’effetto per cui, più ne sai di un argomento, più non riesci a schierarti.
Nemmeno dieci anni di turni mi hanno polarizzato. Sono stati anni in cui ho conosciuto premi di produzione, rimborsi per le visite mediche, buoni carburante, l’ebbrezza di una risposta fulminea della banca alla richiesta di mutuo. Ho visto colleghi trasformarsi in amici e la processione degli operai ai tornelli che strisciavano il badge come fedeli che si bagnano le dita nell’acquasantiera.

(foto Renato Cubo)
In dieci anni di impianto si acquisisce il linguaggio dei macchinari, si impara ad apprezzare le storie dei vecchi operai come fossero leggende, a mangiare carbone vegetale prima delle ecografie imposte dall’azienda per verificare che non ci siamo ammalati, a misurare il tempo in turni, ad attraversare strade deserte quando tutti dormono, a ridere ai pranzi di pensionamento e a piangere per chi di pensione ne ha fatta poca e allora serve fare la colletta per il necrologio. «I colleghi dell’impianto sono vicini alla famiglia».
«Ora non inquina come prima», mi dicevano i vecchi i primi giorni di lavoro, quando ancora non riuscivo ad abituarmi alla salopette blu. «Ci sono i filtri, i controlli, le riunioni di sicurezza. Non è come quando abbiamo cominciato noi». Ed era vero. Sembrava un rimedio però, perché la mia è una generazione che subisce le scelte fatte da altri. Quando la sicurezza era trascurata, non ero ancora nato e quando hanno iniziato a parlare di riconversione con politiche green, stavo andando via. Le decisioni importanti le hanno sempre prese persone in stanze lontane, che probabilmente non hanno mai visitato il reparto in cui lavorava mio nonno, dove le suole delle scarpe si attaccavano a terra come gomma da masticare, e non sanno che odore aveva il vento quando c’erano tutti gli impianti in marcia.
Se anche l’industria se ne andasse domani, non sapremmo che farcene di tutti questi ettari in cui non possiamo più piantare un pomodoro. Ci facciamo un autodromo? E chi lo paga?
La differenza generazionale tra mio nonno, mio padre e me, sta nei dettagli: quando mio nonno ha lavorato la notte della vigilia di Natale, la famiglia ha cenato lasciando il suo cappotto sulla sedia vuota a capotavola; quando è toccato a mio padre, noi bambini abbiamo lottato col sonno per aspettarlo. Io sono quello che è riuscito a fare gli auguri attraverso uno schermo, durante una delle prime videochiamate della mia vita.
Mio nonno è stato tra i primi a iscriversi al sindacato; mio padre ha imparato che nelle assemblee parlare costa e tacere uccide. Io sono quello che ai cortei ha urlato «lotta-lotta-lotta, la chimica non si tocca» che anche se non fa rima, ha un’assonanza che in qualche modo funziona.
Non so se sia stato giusto costruire quel posto e non so se sia giusto che esista ancora. Non so se mio padre avrebbe fatto meglio a cercare un altro lavoro o a rimanere in campagna, come suo fratello. Non so se ho fatto bene ad andarmene. So che a lavorare lì dentro si crea bruttezza, certo, ma non posso neanche fare l’ipocrita. La benzina che metto nella mia macchina, la plastica con cui son fatti i tasti che mi consentono di scrivere queste parole, i medicinali che prendo quando mi fa male la schiena: provengono tutti da posti simili.
Ogni giorno prendo mille piccole decisioni che mi rendono complice: ogni caffè fatto con la capsula, ogni pantaloncino sintetico che compro, ogni volta che salgo in macchina invece di prendere la bicicletta.
Hanno costruito la fabbrica quando il progresso era l’unica religione e la parola “ambiente” si usava solo per indicare le abitudini e i difetti di un ceto sociale. «Erano altri tempi», «c’era un’altra mentalità», «una volta era diverso» dicevano, ma poi non aggiungevano altro, come se ci fosse l’accordo tacito di non parlare troppo del passato. È facile puntare il dito adesso, ma cosa avremmo fatto noi al loro posto? Ci saremmo legati alle ruspe per non far costruire la fabbrica?
Non sono un ambientalista militante né un difensore del lavoro a tutti i costi. Vivo in un limbo, come questa città che non è né completamente avvelenata né completamente sana.
Quando mia figlia, crescendo, mi chiederà cosa ne penso della fabbrica, le dirò la verità: che viviamo in una città che, senza quella fabbrica, forse non esisterebbe nemmeno. E che tutto questo non ci rende né eroi né vittime, ma solo persone che come tutti cercano di vivere il meglio possibile con quello che hanno a disposizione. Le direi che, in un certo senso, noi siamo la fabbrica.
Sono passati anni dal mio ultimo badge strisciato, eppure non passa giorno senza che ci pensi.
Licenziandomi ho interrotto una tradizione che andava avanti da decenni. Ho tagliato il ramo di un albero le cui radici affondavano nel petrolchimico dagli anni Cinquanta. Sono il primo della mia famiglia che fa un lavoro in cui non servono scarpe antinfortunistiche. Quando ho dato le dimissioni c’è chi mi ha guardato con invidia e chi con preoccupazione. E ancora non so se andarmene sia stato un atto di coraggio o di codardia.
Una parte di me vorrebbe avere il coraggio di schierarsi, di puntare il dito contro chi ha creato tutto questo. Un’altra parte sa che senza quella fabbrica, io non avrei una casa di proprietà, non avrei avuto il lusso di potermene andare, non sarei quello che sono.
Mi domando spesso se ne sia valsa la pena. Per la città, per la mia famiglia, per me e per i figli di mia figlia.
Ma come si fa a detestare ciò che ti ha nutrito?
O amare ciò che ti ha avvelenato?
Come si fa a odiare quello che, in un certo senso, sei?
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