Quanto fu fascista Giovanni Gentile?
«Lo fu nella prima, nella seconda, nella terza e nell’ultima ora. Interventista, mussoliniano, imperialista, saloino. Ma è soprattutto il suo tono encomiastico verso il potere a impedire qualunque sua riabilitazione organica»

Ogni tanto si torna a discutere, anche in maniera accesa, di Giovanni Gentile. Gentile, che nacque a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, cioè centocinquant’anni fa, è un filosofo italiano, esponente di un idealismo da lui rinominato “attualismo”. Nel 1923, da ministro dell’Istruzione di Benito Mussolini, firmò una grossa riforma della scuola – tanto importante e controversa che ancora oggi in ambito educativo usiamo l’espressione “gentiliano” per indicare qualcosa di tradizionalistico e autoritario – e il 15 aprile 1944 a Firenze fu ucciso da un gruppo di partigiani dei Gap, i Gruppi di azione patriottica.
Proprio a Firenze un mese fa, nell’anniversario della sua morte, un consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Alessandro Draghi, ha proposto di intitolargli una rotonda proprio vicino al luogo dove fu giustiziato da un gruppo di partigiani: «Ritengo doveroso onorare la memoria di colui che fu tra i massimi esponenti del neoidealismo e dell’idealismo italiano ed è nel luogo stesso in cui trovò la morte».
La sindaca Sara Funaro, del PD, l’ha presa come una provocazione lanciata appena prima dell’ottantesimo anniversario della Liberazione. Il ministro della Cultura Alessandro Giuli invece ha colto la polemica al volo per definire in una nota ufficiale il rifiuto della denominazione un «atto neoprimitivo»: «È un fatto di pura laicità politica e culturale. Gentile eccede le ideologie ed è il momento di riconoscere che la sua statura è quella di un classico. […] Negarla significa rifiutarsi di storicizzare, vuol dire negare la cultura e sottometterla all’ideologia».
L’anno scorso anche l’ex ministro della Cultura Sangiuliano aveva pronunciato parole simili alla mostra dedicata a Gentile. Insieme a quella su Tolkien, era stato uno dei palcoscenici simbolici in cui il governo aveva voluto esibire i suoi riferimenti culturali: «Giovanni Gentile è stato riconosciuto da autorevoli studiosi uno tra i più importanti filosofi europei del Novecento, insieme a Benedetto Croce. La sua è un’elaborazione teorica che offre ancora oggi spunti, dal richiamo al Risorgimento oppure come quando nel saggio postumo ‘Genesi e struttura della società italiana’ individuò il valore della comunità».
La battaglia culturale sull’eredità, culturale, ideologica, simbolica, di Gentile non è tanto interessante in sé, quanto perché è esemplare del dibattito culturale in Italia. Ci fa capire di cosa parliamo quando parliamo di democrazia antifascista e postfascismo, della presunta egemonia culturale di sinistra e del progetto di contro-egemonia della cultura di destra (quindi anche di governo).
Ecco che il Giovanni Gentile celebrato da Sangiuliano e da Giuli è un grande filosofo nazionale e la sua implicazione con il fascismo è sottaciuta se non espunta. La sua statura intellettuale in qualche modo lo affrancherebbe, insomma, dalla sua adesione al regime. Le sue prese di posizione dopo il 1943 per una pacificazione nazionale – che però non rinnegava per nulla il fascismo – farebbero di lui esattamente quel modello di figura politica a cui guardare in un’ottica di conciliazione tra antifascisti e postfascisti.
È emblematico in questo senso il libro Una esecuzione memorabile. Giovanni Gentile, il fascismo e la memoria della guerra civile di Alessandro Campi, appena uscito per Le Lettere. Campi fa di Gentile letteralmente una vittima della tragedia della storia, un martire da affiancare a un pantheon nazionale che assomiglia a un guazzabuglio cimiteriale: ne fanno parte «Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Antonio Gramsci, Enrico Mattei, Pier Paolo Pasolini, Aldo Moro, Vittorio Bachelet, Carlo Alberto dalla Chiesa, Marco Biagi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».
La morte di Gentile sarebbe il sintomo di una sorta di guerra civile di lunghissimo periodo, praticamente permanente, che si sarebbe aperta con il regicidio di Umberto I nel 1900 e avrebbe attraversato tutto il Novecento e oltre. L’Italia, sostiene Campi invocando come nume tutelare Machiavelli, è sempre stata una nazione conflittuale: ha avuto un’immatura consapevolezza civile, incapace di un vero spirito unitario, dilaniata da faide, contrapposizioni violente, che hanno generato una sorta di «morte della patria» nella coscienza degli italiani.
È una tesi che Campi ricava esplicitamente dalle riflessioni di alcuni storici liberali, come Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia. Il primo con Rosso e nero nel 1995 inaugurava quella stagione ideologica della nuova destra che riscriveva la storia italiana del Novecento schiacciandola tra due estremismi, e la guerra di Liberazione come un momento di crisi nella costruzione dell’identità italiana. Il dichiarato obiettivo era quello demistificare il mito della Resistenza («una vulgata ideologica») e soprattutto il contributo dei comunisti nella costruzione della Repubblica italiana.
Il secondo, Ernesto Galli della Loggia (da Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea a L’identità italiana), ha letto e riletto la storia d’Italia, anche lui dalla fine degli anni Novanta, come una storia soprattutto di fazioni o pochissimo di istituzioni. Il progetto pedagogico che in questo modo viene cucito addosso a Gentile è chiaro e paradigmatico, ed è quello che Galli della Loggia stesso incoraggia non soltanto nel volume Insegnare l’Italia, ma anche nelle nuove Indicazioni nazionali per la scuola di cui ha coordinato la parte dedicata all’insegnamento della storia.
È un obiettivo ambizioso e centrale sia del ministero della Cultura che di quello dell’Istruzione e del merito, e in generale dell’ideologia della destra: ridefinire l’identità italiana ed educare a un pensiero nazionale, a una cittadinanza che legga la costituzione in termini soprattutto nazionalistici e patriottici. Campi si fa una domanda retorica che potrebbe stare in bocca a qualunque esponente di questo governo e della corrispondente area culturale:
«Esiste una tradizione o specificità – culturale, politica – italiana che meriti di essere fatta valere nel contesto, come si dice oggi, del globalismo, che abbia, per quante contaminazioni (ben vengano…) e innesti e sviluppi essa possa aver subìto nel tempo, una sua riconoscibilità e dunque autonomia?».
Insomma, se non ci interessa Gentile allora non c’interessa l’Italia, l’identità italiana, l’italianità.
Il senso di questo genere di operazioni è rimuovere la contrapposizione tra fascismo e antifascismo in nome di un nazionalismo pacificato che cancelli quanto più possibile il contributo dei comunisti alla Costituzione e alla storia repubblicana e che di fatto rilegittimi il regime fascista emendato dalle sue responsabilità più gravi: l’alleanza col nazismo, una guerra suicida, le leggi razziali…
Per questo è importante concentrarci sul caso Gentile. Domandiamoci: quanto Gentile è stato fascista e quanto la sua figura può essere studiata indipendentemente dal fascismo? Giovanni Gentile è stato nominato ministro della Pubblica istruzione nel primo governo fascista nel 1922, ha preso la tessera del Partito nazionale fascista nel 1923, è stato il ghostwriter di Mussolini, scrivendo per lui perfino la voce “dottrina del fascismo” per l’Enciclopedia italiana, estensore del Manifesto degli intellettuali fascisti, senatore fascista, fondatore e presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista, ideatore del giuramento di fedeltà al regime fascista dei professori universitari e presidente dell’Accademia d’Italia durante la Repubblica sociale italiana…
Nel 1925, quando è già accaduto l’omicidio di Matteotti e Mussolini lo ha rivendicato in Parlamento, Gentile in una conferenza – appena ristampata da Solferino – già scrive:
«Io vengo al fascismo dagli studi, dalla storia, dalla filosofia. Altri dall’arte. Altri dallo squadrismo della lotta politica quotidiana. Altri dalla polemica del giornalismo. Altri dall’arte del giuoco parlamentare. Altri da altre origini. Ognuno con la sua anima, con la sua cultura, le sue abitudini, la sua vita, la sua personalità. Ma tutti giungono allo stesso punto, e s’incontrano tutti sulla medesima via: che è la via in cui oggi il fascismo vien combattendo la sua bella battaglia in Italia e nel mondo per dare una sua forma allo Stato, e attraverso lo Stato a tutto lo spirito».
Giovanni Gentile è stato un fascista della prima, della seconda, della terza e dell’ultima ora. Interventista, mussoliniano, imperialista, saloino. I suoi tentennamenti non hanno mai intaccato la sua adesione convintissima se non esaltata al fascismo, ma hanno spesso somigliato a un tentativo di rimanere a galla tra i marosi del potere. La lettura che vuole negare o almeno attutire la partecipazione incondizionata al fascismo di Gentile non tiene conto che le sue oscillazioni sembrano determinate più da una conflittualità interna al potere fascista stesso – come ha ricostruito per esempio Alessandra Tarquini nel Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista – che da una sostanziale distanza o una differenza di qualche segno.
Il libro di Mimmo Franzinelli, Il filosofo in camicia nera, uscito nel 2021, mette insieme una tale mole di documentazione in questo senso che ci fa rovesciare la domanda. Non si tratta tanto di capire come distinguere Gentile dal fascismo, ma di comprendere come il fascismo si sia incarnato anche in una certa concezione del potere culturale e della soggezione, se non dell’asservimento, degli intellettuali rispetto alla politica.
Un buon esempio di questa sudditanza lo si ritrova nell’analisi del colonialismo italiano, che è il vero rimosso nella discussione sull’identità, la storia e la cultura nazionale. Nel progetto pedagogico di neonazionalismo della destra attualmente al governo si minimizzano spesso, e ovviamente, le responsabilità delle guerre sanguinarie del fascismo in Africa. A scuola si studiano ancora poco le deportazioni di massa e il genocidio in Cirenaica, le stragi di massa di civili in Etiopia da Addis Abeba a Debre Libanos, l’uso dei gas e i campi di concentramento…
Per questo è interessante leggere la lettera riportata da Franzinelli in cui Gentile nel 1935, contagiato dalla passione “imperiale” ma impossibilitato a arruolarsi a causa dell’età, offre la disponibilità a partire dei suoi cinque figli maschi. Nonostante la benevolenza di Mussolini, la singolare raccomandazione non andrà a buon fine, ma questo non esimerà Gentile dal celebrare l’impresa africana:
«Mussolini oggi non ha fondato soltanto l’impero etiopico. Egli ha fatto qualche cosa di più: ha creato una nuova Italia. Oggi innanzi a lui tutte le scorie dell’opposizione interna cadono e si disperdono; tutti i dubbi e le incertezze, derivanti da osservazioni di dettaglio, o da risentimenti meschini o da pregiudizi inveterati e solo perciò difficili a vincere, si dissipano come nebbia al vento».
È questo tono encomiastico verso il potere, soprattutto quando rivela il suo carattere autoritario e oppressivo, a impedire qualunque riabilitazione organica di Gentile. Anzi, ci fa mettere in crisi la concezione di intellettuale che si è formata nel Novecento. A rileggere le sue biografie – Sergio Romano, Gabriele Turi – e soprattutto a leggere i suoi enormi epistolari, viene fuori un aspetto spesso ricordato: quello di organizzatore culturale.
L’aspetto tralasciato è il fatto che le sue fitte relazioni di lavoro, spesso vissute in modo informale, gli davano un potere culturale – “egemonia” la potremmo chiamare usando l’espressione coniata da Antonio Gramsci, che negli stessi anni era in galera – che poteva nascondere un condizionamento se non un ricatto implicito. Non era per nulla facile per gli intellettuali italiani poter non avere a che fare con Gentile durante il regime fascista. Accanto al filosofo, al ministro, all’ideologo, Gentile non smette mai fino alla morte di coordinare istituti di cultura, riviste, case editrici. È una delle ragioni per cui viene ricordato e onorato – si è celebrato pochi mesi fa il centenario dell’Enciclopedia italiana Treccani, la cui fondazione fu opera proprio di Gentile.
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Quello che si trascura spesso di dire è che quest’enorme potere culturale gli fu garantito dall’adesione al regime che gli assicurò la possibilità di legami di riconoscenza e utilità con la maggior parte degli intellettuali italiani. È anche grazie a questa centralità se Gentile immaginava di poter sopravvivere sia alla fine di Mussolini che a quella del fascismo. E i tentativi di prendere le distanze dagli eccessi del fascismo, più che un tentativo di mediazione, sembrano oggi anche un tentativo di auto-riabilitazione mentre la guerra di Liberazione volgeva a favore di alleati e partigiani. In questo senso, è vero, Gentile può essere letto come figura tragica.
Se vogliamo invece riflettere su che cosa è e su che cosa vorremmo che fosse un intellettuale, possiamo prendere come esempi proprio coloro che non si assoggettarono all’egemonia fascista né a quella gentiliana. Pedagogisti come Giuseppe Lombardo Radice, che fu l’anima della cosiddetta riforma Gentile, e che si allontanò progressivamente dopo il delitto Matteotti. Allievi, colleghi e amici come Guido Calogero, Aldo Capitini, Delio Cantimori, Cesare Luporini, e molti altri, che scelsero, in momenti diversi, l’antifascismo e presero le distanze non solo intellettuali da Gentile. E soprattutto quei professori universitari, dodici o poco più contando gli esuli, su più di mille e duecento, che non prestarono giuramento di fedeltà al fascismo nel 1931. L’idea e la formula di quel giuramento ignobile furono un’altra invenzione di Giovanni Gentile. Dall’esempio di quei dodici – esempio speculare alla parabola biografica di Gentile – ricaviamo un’idea di intellettuale come di qualcuno che ci educa alla libertà e all’indipendenza dal potere, e soprattutto al coraggio.