I buchi in questa foto vi disgustano?

Perché in quel caso potreste soffrire di tripofobia, la repulsione per le superfici con molti fori ravvicinati, su cui non sappiamo ancora molto

Tante ghiande nascoste in piccoli fori nella corteccia
I fori creati sulla corteccia di un albero da un picchio delle ghiande a Moore Creek Park, in California (AP Photo/Eric Risberg)
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Non è facile capirsi sulla tripofobia, una forma di repulsione più o meno intensa che alcune persone provano alla vista di superfici piene di piccoli fori irregolari e ravvicinati. Non è una fobia definita nei manuali diagnostici, ma provoca in molti casi reazioni di disgusto, disagio o persino paura incomprensibili per chi non ne soffre. Perché per una persona non tripofobica non c’è niente di repellente o minaccioso, per esempio, nella corteccia di un tronco bucherellato da un picchio, nel favo di un nido d’ape o nelle bollicine che si formano in un impasto durante la cottura.

Circa il 10-15 per cento delle persone invece trova sgradevoli queste immagini, secondo una stima fornita al Washington Post da Nate Pipitone, psicologo della Florida Gulf Coast University che si occupa da anni di tripofobia. La parola – dal greco antico trŷpa (“buco”) – emerse in un forum online nei primi anni Duemila, ma la sensazione che indica esiste probabilmente da molto prima, anche se Internet potrebbe avere aumentato le occasioni di esposizione agli stimoli che la suscitano.

Di tripofobia soffrono persone di ogni età, anche bambini di 4-5 anni. Chi ce l’ha la descrive in vari modi: come una sensazione simile alle vertigini, alla nausea, o a un fastidioso prurito o formicolio sul corpo.

Una delle immagini più citate tra quelle che stimolano queste sensazioni è l’infiorescenza del loto: ricorda il soffione di una doccia, dai cui fori si intravedono diversi semi che crescono durante la maturazione. È uno stimolo così potente che anche solo sentirne parlare può dare fastidio ad alcune persone. Tra le varie immagini mostrate in alcuni video online, usati come test per misurare il proprio livello di tripofobia, c’è anche quella del rospo del Suriname (Pipa pipa), che si riproduce in un modo piuttosto insolito: alla nascita i piccoli fuoriescono direttamente da fori presenti sul dorso delle femmine, che trasportano per mesi le uova fecondate.

Alcuni fiori di loto in fasi diverse di maturazione

Fiori di loto in una palude a Des Allemands, nello stato della Louisiana (AP Photo/Bill Haber)

Negli ultimi anni gli studi sulla tripofobia sono aumentati, ma in generale c’è ancora incertezza su come definirla: se considerarla una vera fobia, o solo una condizione psicogena emersa su Internet e che si è poi diffusa per effetto di una suggestione collettiva.

Per rientrare nella definizione di fobia del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM, il testo di riferimento internazionale per la classificazione dei disturbi psichici), la tripofobia dovrebbe essere associata a paura e ansia abbastanza forti da causare un disagio significativo o un’incapacità di svolgere normali attività quotidiane. Per la maggior parte delle persone tripofobiche non è così: la vista delle immagini ha un effetto ripugnante, ma non ingestibile e debilitante.

Indipendentemente dalla classificazione, è probabile che la tripofobia condivida diversi aspetti non con una patologia ma con un’emozione primaria, il disgusto, che protegge l’organismo riducendo il contatto con possibili agenti patogeni. Gli studi più citati dicono che le reazioni più forti sono provocate da immagini in cui i buchi sono sovrapposti a superfici cutanee di animali o alla pelle umana.

È un dato rilevante perché serve a sostenere anche le due principali ipotesi sull’origine evolutiva della tripofobia, oggetto di diversi studi in anni recenti. La prima ipotesi è che la pelle maculata di alcuni animali velenosi come serpenti e ragni abbia caratteristiche tripofobiche, per così dire.

In una ricerca del 2013 Arnold Wilkins e Geoff Cole, psicologi inglesi dell’Università di Essex, confrontarono le immagini che suscitano la tripofobia a quelle di animali velenosi come il polpo dagli anelli blu (Hapalochlaena). Riscontrarono una distribuzione simile di macchie, buchi e protuberanze, e anche un livello di contrasto simile tra parti piene e vuote nelle immagini. Conclusero quindi che la tripofobia potesse derivare da un’avversione adattiva verso animali velenosi, e che sia una sorta di riflesso subconscio più che una paura appresa e curabile tramite interventi psicologici mirati.

Un’altra ipotesi suggerita da studi successivi è che le sensazioni associate alla tripofobia siano il risultato evolutivo di una reazione ad alcune malattie e alle lesioni che lasciano sulla pelle. Secondo questa idea, la repulsione per la pelle delle persone infette potrebbe avere dato agli individui tripofobici un vantaggio evolutivo, permettendo loro di evitare il contatto con malattie potenzialmente mortali, come per esempio il vaiolo.

Sono due ipotesi distinte perché fanno riferimento a due emozioni diverse: la paura e il disgusto. La vista di un predatore velenoso è paurosa perché attiva il sistema nervoso simpatico, che stimola la produzione di alcuni ormoni utili per l’attacco o la fuga, a seconda dei casi. Le malattie e le infezioni sono disgustose perché attivano invece il sistema nervoso parasimpatico, la parte autonoma del sistema nervoso che controlla buona parte delle azioni involontarie del corpo.

Questa distinzione è stata ulteriormente confermata da una ricerca del 2018 sulla tripofobia. I risultati di due diversi esperimenti mostrarono che le pupille dei partecipanti si dilatavano alla vista di immagini di serpenti e animali minacciosi, ma si contraevano – un segno di attivazione del sistema nervoso parasimpatico – alla vista di immagini generiche di buchi.