Dietro al calo delle anguille c’è una storia pazzesca
C’entrano anche Comacchio, il fiume Po, ma soprattutto un viaggio che attraversa mezzo mondo e ancora un sacco di misteri
di Isaia Invernizzi

In una calda mattina di metà marzo un gruppo di ricercatori dell’università di Ferrara aguzza la vista dopo aver svuotato con delicatezza una rete posizionata all’imbocco delle valli di Comacchio, una grande area umida in provincia di Ferrara. Serve un occhio allenato per riconoscere un’anguilla cieca in mezzo a migliaia di altri pesciolini. Le cieche sono quasi completamente trasparenti, lunghe pochi centimetri, sottili e affusolate. Hanno poco più di un anno. I ricercatori ne contano 29. Uno di loro strabuzza gli occhi, guarda gli altri e sembra quasi esultare. È un successo, dice: di solito sono molte meno.
Fino a un paio di decenni fa nello stesso periodo dell’anno e nella stessa rete sarebbero finite almeno un migliaio di anguille cieche, destinate a popolare le valli. Da allora molte cose sono cambiate. Oggi a Comacchio arriva tra il 2 e il 3 per cento delle anguille che arrivavano tra gli anni Settanta e Ottanta. Il progetto di ricerca a cui partecipa l’università di Ferrara, chiamato Lifeel, sta cercando di capire le ragioni di questo drastico calo che non riguarda solo Comacchio, ma il mondo intero.
Lifeel è un progetto ambizioso perché le conseguenze di questo calo non sono solo ambientali: sono anche economiche e sociali, in territori come l’Emilia e la Romagna dove le anguille hanno dato da vivere a molte persone. Ma è ambizioso anche perché le anguille, ancora oggi, sono uno dei grandi misteri della scienza.

Un ricercatore dell’università di Ferrara fotografa un granchio blu che ha catturato un’anguilla cieca (Valentina Lovato/Il Post)
L’anguilla è un pesce così misterioso che è difficile perfino capire se è davvero a rischio estinzione – specifichiamo subito: lo è – dato che non è possibile stimare con precisione quante ce ne siano davvero al mondo. Avere una stima affidabile della popolazione è il primo criterio usato dall’Unione internazionale per la conservazione della natura per determinare se una specie è a rischio oppure no. Il secondo criterio non è nemmeno lontanamente avvicinabile: dice che oltre alla popolazione totale serve stimare quanti siano gli “individui riproduttivi”, cioè le anguille sessualmente mature, pronte a riprodursi. Qui la faccenda si fa ancora più complicata.
Le anguille infatti fanno un sacco di cose che nessuno è mai riuscito a vedere, nemmeno per caso: una di queste è appunto riprodursi. Si sa solo che la riproduzione avviene soltanto nelle profondità del mar dei Sargassi, una porzione dell’oceano Atlantico nord occidentale tra gli arcipelaghi delle Azzorre e delle Antille. Un mare nel mare. Gli scienziati sono arrivati a questa conclusione perché lì e solo lì sono stati trovati gli esemplari più piccoli di anguille al primo stadio, i cosiddetti leptocefali: larve minuscole, piatte e per lo più trasparenti, lunghe solo pochi millimetri, con occhi poco sviluppati. Arrivano lì per riprodursi da tutto il mondo (solo la specie Anguilla japonica si riproduce in un altro posto, vicino alle isole Marianne, nell’oceano Pacifico).
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Perché proprio nel mar dei Sargassi? Ancora non è stata trovata una risposta. Del resto, in merito alla nascita delle anguille sono serviti secoli soltanto per escludere teorie tra le più fantasiose e bizzarre. Il filosofo greco Aristotele sosteneva che nascessero dal fango, lo storico latino Plinio il Vecchio che si moltiplicassero sfregandosi contro le rocce liberando particelle dal corpo pronte a diventare nuove anguille. Nella campagna inglese si pensava che nascessero nell’attimo in cui il pelo della coda di un cavallo cadeva in acqua.
La nascita non è l’unico mistero di questa specie. Tra le cose che nessun essere umano è mai riuscito a vedere c’è infatti la morte di un’anguilla dopo la riproduzione: il motivo è che nascono e muoiono troppo in profondità. Gli scienziati che le studiano si dividono in due grandi orientamenti, in una sorta di disputa filosofica: quelli che pensano che vedere finalmente un’anguilla nel mar dei Sargassi, viva o morta, sia irrilevante perché ormai è noto che le anguille nascano e muoiano lì; e quelli che invece ritengono che per avere la certezza di questa teoria serva una prova inconfutabile.

Un’anguilla gialla (Valentina Lovato/Il Post)
Le ricerche portate avanti negli ultimi decenni hanno però permesso di scoprire qualcosa in più su tutto ciò che succede tra la nascita delle anguille e la loro morte, in particolare i due lunghi viaggi che affrontano durante la loro vita: quello dal mar dei Sargassi verso l’Europa e quello di ritorno dall’Europa al mar dei Sargassi. Il gruppo di ricercatori dell’università di Ferrara studia il loro arrivo a Comacchio, approdo finale dopo un viaggio di migliaia di chilometri nel mare. Alla storica stazione di pesca chiamata Bellocchio i ricercatori contano le cieche, le misurano, le pesano. Cercano di capire come stanno. A volte le portano in un laboratorio per altri esami, prima di liberarle nelle valli.
Migliaia di anguille rimarranno nelle aree umide di Comacchio per anni: nove, dieci, anche di più. Dopo aver viaggiato per mezzo mondo, scelgono un posto che diventa la loro casa e non si spostano da lì per quasi tutta la loro vita. Altre risalgono i fiumi della pianura Padana, il Po, il Mincio. Prima della costruzione di dighe e centrali idroelettriche arrivavano fino al lago di Garda.
Da cieche crescono e si trasformano in “gialle”, il nome dato al secondo stadio dello sviluppo. Il corpo assume l’aspetto più noto a chi le pesca o le cucina: diventa serpentiforme e muscoloso, di un colore tra il giallo e il grigio, con scaglie così fini da risultare invisibili all’occhio. La bocca si allarga, le mascelle sono potenti. Si nutrono di piccoli pesci, vermi, larve, rane, lumache, insetti. Sono ghiotte anche di granchi nella fase della muta, più vulnerabili quando cambiano il carapace. In caso di necessità, non disdegnano topolini e piccoli di uccelli.
A un certo punto della loro vita, se non vengono pescate, decidono che è arrivato il momento di riprodursi e si trasformano di nuovo. Il dorso si colora di nero e il ventre di argento. A questo stadio vengono chiamate appunto “argentine”. Le pinne si allungano per nuotare più velocemente, gli occhi si allargano e diventano blu per vedere meglio nelle profondità del mare. Gli organi riproduttivi si sviluppano, l’apparato digerente smette di funzionare e le anguille cominciano a prendere l’energia dalle riserve di grasso. Si preparano così al lungo viaggio di ritorno verso il mar dei Sargassi, dove si riprodurranno e infine moriranno, esauste.
Anche seguire il viaggio di ritorno è un’impresa. Solitamente i ricercatori posizionano un dispositivo, una specie di etichetta, che permette di identificare l’anguilla quando viene pescata dai pescherecci che lavorano nell’Adriatico. Il secondo metodo consiste nell’installare un trasmettitore sottopelle, nella zona dell’addome.
In mare vengono poi posizionate delle boe a una certa distanza l’una dall’altra, perpendicolari alla costa come a disegnare un traguardo, che funzionano come dei sonar per tracciare il passaggio. «Sì, seguirle sembra facile, ma non lo è», dice Mattia Lanzoni, ricercatore di scienze dell’ambiente e prevenzione dell’università di Ferrara. «Noi siamo riusciti a tracciare la rotta migratoria nell’Adriatico per i primi 200 chilometri». Nell’epoca in cui tutto è tracciato e geolocalizzato sembra poca cosa, in realtà è una grande conquista.
Parlando con Lanzoni emerge un grande paradosso al centro delle discussioni sulla sopravvivenza di questa specie, e cioè che per poter comprendere come mai le anguille sono sempre di meno bisogna interessarsi di più del loro stato di salute; e per interessarsi di più, molto di più, l’unico modo sembra essere la pesca, la gastronomia, più in generale l’economia. Sono però anche tre delle cause che in parte spiegano il drastico calo.

Un’anguilla cieca, quasi invisibile, all’interno di una vasca (Valentina Lovato/Il Post)
Se si vietasse completamente la pesca, spiega Lanzoni, si perderebbe il presidio territoriale dei pescatori, la cultura, la tradizione, la condivisione sociale che permette di continuare ad avere interesse nella specie: «Può sembrare strano, eppure noi ricercatori collaboriamo con molti pescatori: ci danno aggiornamenti costanti e molti dati per studiare le anguille. È nel loro interesse». Non è un caso che uno dei paesi dove si studia di più l’anguilla è il Giappone, dove il kabayaki – l’anguilla arrostita – è un piatto molto popolare.
I pescatori sono anche i primi a percepire gli effetti del cambiamento climatico, un altro dei motivi che spiega il calo delle anguille. Non hanno grosse competenze scientifiche o strumenti particolari, però si accorgono che l’ambiente sta cambiando velocemente, che non si pesca più quanto una volta, come una volta. Tutte queste informazioni sono utili a chi fa ricerca.
Luca Bellini è un “vallante”, un custode di una grande area umida vicina al delta del fiume Po. Da anni ogni mattina prima dell’alba prende la sua piccola barca e gira per la sua valle per vedere come stanno pesci e uccelli. Ogni valle ha un suo delicato meccanismo di funzionamento fatto di chiuse, buche, canali.
L’acqua arriva dal mare e si mescola con l’acqua dolce del Po a formare un’area umida di acqua salmastra con diversi livelli di salinità. All’ingresso c’è una prima buca dove viene selezionato il pesce: alcune griglie, i lavorieri, impediscono il passaggio di pesci troppo piccoli o troppo grandi. Dopo la prima selezione, il pesce si sposta in una buca più profonda dove nei mesi invernali forma un grande ammasso, una sfera, forma che permette loro di proteggersi dal freddo. Come per le api, questa sfera si chiama glomere. Nel resto della valle l’acqua è alta meno di mezzo metro per favorire l’ossigenazione. Tutto questo è il risultato del lavoro dei vallanti che assecondano e in parte guidano lo sviluppo naturale delle valli.

Luca Bellini nella sua valle (Il Post)
Bellini spiega che il freddo è la minaccia più temuta per i pesci nel glomere, anguille comprese. Quando fa troppo freddo, i vallanti devono chiudere le chiuse per limitare gli sbalzi di temperatura dell’acqua. Lo stesso succede quando c’è molto vento. A ogni condizione meteorologica corrisponde un complesso rimedio di chiusure e aperture di canali e pozze. Vanno tenuti d’occhio anche gli uccelli, in particolare i cormorani, che non vedono l’ora di infilarsi nel glomere per mangiare.
D’inverno – Natale e Capodanno compresi, a qualsiasi temperatura – Bellini se ne sta sulla barca sopra il glomere per evitare che i cormorani facciano incetta di pesci. A differenza dei vallicoltori, che sfruttano le valli con metodi intensivi per ottenere profitti dalla pesca, il vallante è un lavoro più simile alla guardia ambientale. «Il nostro compito è mantenere l’equilibrio biologico tra prede, predatori, carnivori, erbivori e la vegetazione», dice Bellini.
Se il freddo è un rischio per la sopravvivenza dei pesci, quindi delle anguille, si potrebbe pensare che il riscaldamento globale sia un toccasana. In realtà Bellini spiega che il funzionamento è controintuitivo: siccome fa troppo caldo, lo strato d’acqua superficiale delle valli non ghiaccia più come una volta, non isola più le pozze dal freddo. «I pesci e le anguille sono molto più esposti alle conseguenze del vento, che in inverno può raffreddare velocemente il glomere e farli morire», spiega Bellini. «Senza ghiaccio i cormorani cacciano più facilmente. Poi notiamo sempre più sbalzi di salinità che influiscono sulla crescita delle alghe e sull’ossigenazione. Insomma, sta cambiando tutto in fretta».
Gli studi fatti finora hanno dimostrato che il cambiamento climatico ha alterato la direzione e la potenza delle correnti oceaniche. Anche una modesta deviazione delle rotte migratorie significa molti chilometri in più e più fatica. A tutto questo si aggiunge il rischio di perdere la corrente giusta e il momento giusto per migrare, con possibili conseguenze sulla sopravvivenza delle anguille nel viaggio verso le coste europee o al ritorno, verso il mar dei Sargassi.

(Valentina Lovato/il Post)
Il secondo motivo che spiega come mai ci sono molte meno anguille è la progressiva perdita del loro habitat, soprattutto delle cosiddette acque interne – fiumi, lagune, laghi – irraggiungibili per via degli sbarramenti costruiti nell’ultimo secolo. Ogni diga, centrale idroelettrica, bonifica o canale che devia un corso d’acqua impedisce alle anguille di raggiungere il posto dove vorrebbero stabilirsi. Negli ultimi anni, grazie all’attività di sensibilizzazione dei ricercatori, sono stati trovati fondi per costruire infrastrutture che le anguille utilizzano per superare gli sbarramenti soprattutto nel fiume Po e in alcuni suoi affluenti, come scale di risalita e appositi canali chiamati “bypass fluviali”. È però un lavoro lungo e costoso.
La terza ragione del drastico calo delle anguille è la pesca di frodo delle cieche, mai in calo nonostante i divieti e le sanzioni emesse dall’Unione Europea. Le cieche vengono pescate sia per venderle agli allevamenti fuori dall’Unione Europea, in Asia, sia per cucinarle. Molte zone delle coste europee hanno ricette tenute quasi nascoste, tramandate all’interno delle famiglie e considerate prelibate anche perché proibite.
Le cieche vengono pescate con attrezzi diversi, perlopiù reti circolari chiamate cerchie, posizionate nei canali per bloccare il passaggio. A seconda dello stadio di crescita, ogni chilo di pesce comporta la morte di circa duemila pesci fino a diverse migliaia. Le quotazioni sul mercato nero cambiano in base alla zona e al periodo: negli ultimi anni sono arrivate fino a novemila euro al chilo.
L’interesse del mercato asiatico per le cieche è dovuto al calo dell’anguilla japonica e alla richiesta sempre molto alta da parte dei consumatori giapponesi. Il contrabbando passa solo dal mercato nero: dal 2010 infatti l’Unione Europea ha vietato le esportazioni di anguille cieche al di fuori dei suoi confini. Negli ultimi anni l’Europol, l’agenzia di polizia dell’Unione Europea, ha sequestrato centinaia di chili di anguille cieche destinate al mercato asiatico.
Tutte questo spiega perché oggi a Comacchio arriva tra il 2 e il 3 per cento delle anguille che arrivavano tra gli anni Settanta e Ottanta, e spiega anche perché c’è ancora moltissimo da scoprire e da spiegare. I dati della pesca al mercato di Chioggia sono un buon indicatore per dare una misura al calo, piuttosto evidente dal grafico.
Le università di Ferrara e di Bologna stanno portando avanti diversi studi per capire come intervenire, o quanto meno identificare in modo più preciso i motivi del calo. Il tracciamento della rotta nel Mediterraneo è uno di questi, ma il più ambizioso è il tentativo di riprodurre in cattività le anguille. Ci sta provando da anni Oliviero Mordenti, professore dell’università di Bologna, che finora è riuscito a far schiudere le uova e a far sopravvivere i leptocefali fino a circa 40 giorni: un risultato enorme e di per sé storico, perché nessuno prima di lui era arrivato a questo stadio.
Manca ancora un passaggio decisivo, ovvero come alimentarle per farle diventare adulte. I progressi dei suoi studi sono seguiti da mezzo mondo.