Appunti sulla boxe e sui KO

«Che noia essere Golia se c’è David tra le scatole. Che brutto tiro, poter essere il migliore, come è successo a George Foreman, quando tra i piedi ti trovi Mohammed Ali, il più grande di tutti i tempi.»

George Foreman (a sinistra) e Mohammed Ali (a destra). Kinshasa, Zaire, 30 ottobre 1974. (Ken Regan /ABC via Getty Images)
George Foreman (a sinistra) e Mohammed Ali (a destra). Kinshasa, Zaire, 30 ottobre 1974. (Ken Regan /ABC via Getty Images)
Pietro Grossi
Pietro Grossi

Il suo primo libro si intitolava Pugni, l'ultimo Qualcuno di noi. In mezzo ne ha scritti altre sette e da più di venti anni s'impegna a divulgare lettura e scrittura.

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Questa è una storia di giganti, e di banali ma fondamentali lezioni. La mia versione di questa storia inizia nell’autunno del 1994. Avevo da poco preso a fare pugilato. Stavo ancora imparando i rudimenti della guardia, la posizione di spalle e piedi. Ero già in estasi.

Ci sentivamo abbandonati, noi giovani aspiranti pugili, in quel periodo. Da piccoli avevamo aspettato trepidanti che arrivasse la sera, per guardare la saga di Rocky, avevamo studiato i palinsesti su TV Sorrisi e Canzoni per scovare quando e dove davano Forza Sugar, il cartone sul padre e figlio pugili, ci eravamo per un po’ fatti irretire da quei baracconi del wrestling americano. Poi era apparso lui, l’apparente solidificazione di tutti i nostri sogni: Mike Tyson. Sarebbe dovuto passare parecchio tempo perché imparassimo che quando avevamo preso ad ammirarlo, cioè quando era diventato campione del mondo, il meglio di lui era già passato.

(Breve consiglio, qui, per i curiosi ma poco colti dell’arte della boxe: se credete che Tyson fosse un grande pugile – o ancor più se credete che non lo fosse – andate su YouTube e guardatevi gli incontri che hanno preceduto la conquista del titolo contro Trevor Berbick: quel blocco di forza bruta, così potente eppure così veloce e precisa, era davvero uno dei pugili più forti di tutti i tempi. In uno dei video che si trovano in rete, Larry Merchant, il commentatore di HBO, dice «It’s over, and we have a new era in boxing», è finita, e abbiamo una nuova era del pugilato. (Qui c’è il video. La frase è al minuto 8:54). Mai commento fu meno profetico: l’era, con il clamoroso KO di quel ventenne di Brooklyn, non stava cominciando, stava finendo. A Tyson era da poco morto l’allenatore e mentore, Cus D’Amato, l’unico che riusciva a regolarlo. Sarebbe poi finito nelle spire di Don King, sarebbe diventato un pugile sempre più prevedibile, sarebbe finito – con un ridicolo processo e un’assurda sentenza – in carcere per stupro).

Non sapevo più da che parte rifarmi. Gli incontri dei pesi massimi parevano schermaglie tra sgraziati sacchi di cemento, e dovevo ancora scoprire Oscar De La Hoya. Mamma mia, De La Hoya: quell’eleganza, quella velocità.

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Fu quindi per non sapere dove sbattere la testa, che il 5 novembre 1994, dopo averne sentito parlare in palestra, sedetti davanti alla TV a guardare l’ennesimo, flaccido incontro per il titolo dei pesi massimi, tra il ventiseienne Michael Moorer e il quarantacinquenne George Foreman. Pareva l’incontro di uno sgraziato burattinaio: questi due colossi che si fronteggiavano in giro per il ring, il giovane che non riusciva a mettere a segno le sue combinazioni, il vecchio che caracollava, tentando di quando in quando di mettere a segno un lento colpo. Se non altro Foreman non aveva quella strana guardia a braccia incrociate che gli avevo visto in un altro incontro, e finì per vincere, cosa che almeno mi diede la sensazione di non aver buttato il mio tempo. Vi prego, ridateci Tyson. Beata, tenera ignoranza: non lo sapeva, quella ingenua versione sedicenne di me stesso, che stava ricevendo una delle più importanti lezioni della sua vita.

Iniziò a capirlo sei anni più tardi, a Torino, quando un suo compagno di studi, parlando di boxe, gli domandò, con gli occhi eccitati, cosa ne pensasse di When We Were Kings.

Dissi che non sapevo di cosa stesse parlando.

Ma come, mi disse il mio amico, il documentario sull’incontro tra Ali e Foreman in Congo, che l’anno scorso ha vinto l’Oscar.

Mi sentii in imbarazzo, e ancor più quando, il giorno dopo, il mio compagno mi portò un cofanetto dell’Einaudi con dentro una videocassetta e un libriccino di racconti sulla boxe.

Impiegai qualche minuto, la mia mente faceva fatica ad allinearsi, a ricollegare il gigante ricciuto del documentario con l’anziano, calvo pugile quarantacinquenne che qualche anno prima avevo visto vincere il titolo contro Moorer. Avrei poi scoperto che erano effettivamente, in non pochi sensi, due persone diverse.

È difficile in poche righe dare un senso di cosa fosse George Foreman a 25 anni anche se, certo, ci si può guardare qualche incontro di Foreman da giovane, tipo contro quel gigante assassino di Frazier, e vedere come lo spazza via, e ovviamente When We Were Kings. Ci sono stati pugili più massicci, ma mai più potenti e distruttivi. Stavo per scrivere «anche più veloci, considerata la stazza», ma non è del tutto vero: Ali stesso era molto più veloce, seppure in realtà cresciuto come mediomassimo, e anche il Tyson che arrivò al primo mondiale.

Parlerei più di scioltezza, forse. I pugili più massicci non riescono a non portarsi dietro il passo di un bulldozer: finiranno per vincere, spesso, ma lo faranno incalzando, incassando, e massacrando l’avversario con la potenza dei loro colpi. Non il primo George Foreman. Quel Foreman non pareva danzare sul ring, come Ali: pareva più scivolare, galleggiare sulla sua superficie, come una barca. Sul ponte di quella barca però era montata una gru, a cui erano attaccate due elastiche e precisissime palle da demolizione.

Non mi pare ci sia nel documentario di Leon Gast, ma c’è senz’altro in The Fight, il libro di Norman Mailer sull’incontro a Kinshasa: tra le infinite litanie con cui Ali incantava e intontiva la stampa nei giorni e nelle settimane prima dell’incontro – forse anche per intontire la sua stessa paura – disse anche che Foreman non sapeva picchiare. Davanti a una distesa di giornalisti, seduto sul bordo dell’alto ring di Nsele, con una mano poggiata sulla testa calva del suo coach, Drew “Bundini” Brown, come su una sfera nera di cristallo, Ali elencò i grandi pugili che aveva incontrato, cantandone le lodi, poi quelli che aveva incontrato Foreman, ridicolizzandoli uno dopo l’altro. Disse infine che Foreman ne aveva atterrati tanti, ma non li aveva messi KO. Quando per l’ennesima volta andai a rivedermi i finali degli incontri di Foreman, mi venne da sorridere, il genio di Ali di nuovo mi sorprendeva. Era vero, in effetti: le scene erano talmente brutali, la caduta di quei titanici campioni talmente rovinosa, che il fatto che continuavano a rialzarsi non lo notavi neppure. Epperò – fate come vi pare – quei giganti venivano sbatacchiati e atterrati dai colpi di Foreman come fuscelli.

Non serve leggersi tutto The Fight – ma se si ha tempo vale la pena farlo – per capire come Foreman riduceva i sacconi da cinquanta chili con cui si allenava, basta guardare il documentario, o qualche suo estratto: li massacrava senza sosta per cinque, sei, sette riprese, facendoli sobbalzare come cuscini e scavandoci dentro una buca capace di accogliere un cocomero. Chi abbia mai tirato qualche colpo a un saccone in cuoio da cinquanta chili può capire quale spaventoso prodigio sia questo.

Ecco la creatura contro cui il trentaduenne Mohammad Ali, il 30 ottobre del 1974, saliva sul ring dell’allora Zaire.

Sono tre, quando mi trovo a parlarne, i momenti più impressionanti di quell’incontro, ritenuto da molti il più grande match di tutti i tempi.

Il primo, e meno evidente, è lo sguardo di Ali appena prima dell’inizio della seconda ripresa. Qualunque cosa avesse pensato e orchestrato Ali nei giorni precedenti all’incontro, la sensazione che mi ha sempre passato è che d’un tratto si rese conto che non sarebbe servito a niente. Per tutta la prima ripresa Ali sfida Foreman, gli manca quasi di rispetto, portando i più rischiosi dei colpi, i suoi fulminei diretti destri. Non doveva essere mai capitato a Foreman, e resta in effetti spaesato, ma sta attaccato ad Ali e finisce per portare anche lui una serie di colpi che incrinano qualcosa, nell’altro.

Prima che il secondo round cominci, Ali inneggia alla folla che canta «Ali, boma yé», «Ali, ammazzalo», come nelle settimane precedenti, poi però, quando è già in piedi e sta per riprendere a combattere, una ripresa dal basso con le corde in primo piano fa intuire un’ombra nei suoi occhi. Fino a quel momento avevamo visto il plastico volto di Ali piegarsi in un’immensa moltitudine di espressioni, nelle sue interviste e conferenze stampa aveva rappresentato tutta la gamma di emozioni umane, soprattutto per schernire i suoi avversari e costruire la sua leggenda. Ma non lo avevamo mai visto spaventato. Per una manciata di secondi, invece, prima che suoni la campana del secondo round, Ali capisce di essere spacciato, che è tutto vero, che quella che ha davanti è una macchina più potente e veloce e precisa di quanto sia in grado di contenere, e che perderà.

Ecco, quindi, il secondo momento leggendario dell’incontro, lungo sette round e di cui, in questo caso, tutti gli amanti del pugilato sanno: i ventisette minuti in cui Ali non fa altro che usare le corde come ammortizzatori, farsi colpire da Foreman più forte che può, bisbigliandogli continuamente all’orecchio che non gli fa niente, che non sa picchiare, stancandolo ed esasperandolo. E infine l’attimo, a dieci secondi dalla fine dell’ottava ripresa, in cui Foreman non ce la fa più, caracolla, prova a portare un altro colpo e gli calano le braccia: la scintilla negli occhi di Ali, lo scatto dalle corde, la piroetta dopo un gancio e una di quelle sue elastiche, magnifiche combinazioni di diretti che mandano Foreman al tappeto.

Che noia, no?, essere Golia se c’è David tra le scatole. Che noia essere Biaggi se c’è Valentino Rossi, Prost se c’è Senna, la Šarapova se c’è Serena Williams. Che brutto tiro, poter essere il migliore, quando accanto hai tra i piedi il più grande di tutti i tempi. Un tiro talmente brutto da spedire quel gigante apparentemente inscalfibile di George Foreman in depressione. Dopo una sosta di un anno avrebbe riguadagnato il titolo, lo avrebbe difeso un paio di volte, ma avrebbe per sempre ricordato quel periodo come il più oscuro della sua vita.

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Fino a quando non si sarebbe trovato steso sul lettino di uno spogliatoio, dopo aver perso il titolo contro un dimenticato Jimmy Young, e si sarebbe sentito come Cristo sulla croce. Non un’idea astratta e passeggera: avrebbe sentito le ferite al costato, le spine della corona sulla fronte, il sangue che gli colava in volto. Avrebbe perso i sensi e si sarebbe sentito scivolare in un luogo buio, orrendo, maleodorante. Quando avrebbe riaperto gli occhi avrebbe trovato intorno a lui il suo team, preoccupato, e avrebbe capito due cose: si era affacciato sulla morte, e in quel luogo oscuro non sarebbe mai voluto tornare.

George Foreman diventò un pastore. Non di pecore, di anime. Quella gigante e perfetta macchina da distruzione decise di seguire la strada e le parole di Gesù, e divenne il pastore di una piccola comunità di credenti di Houston, Texas. Bisogna un po’ frugarci dentro, in George Foreman – un memoir spirituale, che purtroppo finisce per essere il tentativo di un libro di istruzioni per la crescita personale, ma si riescono comunque a scovare divertenti sfumature sull’ex campione dei pesi massimi alle prese con la sua fede: gente che fa fatica a riconoscerlo, macchine scassate in cui si nasconde, chiacchierate con ex amici delinquenti e pugili che fanno fatica a credere alla sua conversione. Qualunque siano le nostre idee sulla vita e chi la governa, è indubbio che George Foreman, di vite, ne ha vissute almeno due, molto diverse tra loro, e che nella seconda sia stato molto più felice che nella prima, e che in entrambe è stato campione mondiale dei pesi massimi.

Riprese a combattere per denaro. Il George Foreman Youth Center, il centro che aveva fondato a Houston per aiutare giovani in difficoltà, rischiava di chiudere per mancanza di fondi e Dio, contro il parere di ogni altro esperto, gli suggerì di tornare a lottare per il titolo. Trasformatosi ormai a tutti gli effetti in un personaggio biblico, Foreman, ormai quarantaduenne, pensò che non fosse una buona idea disobbedire al suo irascibile capo, e riprese ad allenarsi. E dopo molti incontri preparatori, e due tentativi per il titolo, quando ormai mezzo mondo gli rideva dietro e gli diceva di andare all’ospizio, il 5 novembre 1994, mentre quell’ingenuo me stesso guardava annoiato davanti alla televisione, vent’anni dopo aver perso a Kinshasa da Ali e più anziano di chiunque altro ci avesse mai provato, contro un Michael Moorer ventiseienne, nel pieno delle sue forze, mancino, con un record di trentacinque vittorie e nessuna sconfitta, George Foreman riuscì nella sua impresa.

Foreman avrebbe poi riempito le cucine di buona parte degli Stati Uniti di una speciale griglia da barbecue, trasformandosi questa volta in un grande imprenditore. Il senso che si ha di quest’uomo, in tutta la sua seconda e terza vita, è di una straordinaria vitalità. Una creatura capace, attraverso il suo caparbio ottimismo, di resistere a tutto. Se ne è andato qualche mese fa, il 21 marzo, primo giorno di primavera, all’età di settantasei anni. È sembrato che la notizia abbia preso tutti di sorpresa: forse pensavano che fosse inossidabile, o era davvero ormai salito, nella nostra immaginazione, allo stato di un dio.

E intanto, noi comuni mortali, restiamo qui a baloccarci con i forse banali ma inattaccabili insegnamenti di questi titani: che la mente conta più del corpo, che anche i giganti prima o poi crollano, che se lotti accompagnato da una qualunque forma di fede riesci a vincere chiunque, e soprattutto che la vera differenza non la fa come picchi, ma come incassi.

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