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  • Mercoledì 4 giugno 2025

I processi della Chiesa sugli abusi sessuali non sono veri processi

Non ci sono controlli sulle indagini, non c'è un dibattimento, chi denuncia abusi non può difendersi: la giustizia canonica ha altri obiettivi, non sempre chiari

Il dicastero per la Dottrina della fede in Vaticano, che è responsabile dei delitti di abuso sessuale commessi da chierici, 9 dicembre 2019 (AP Photo/Alessandra Tarantino)
Il dicastero per la Dottrina della fede in Vaticano, che è responsabile dei delitti di abuso sessuale commessi da chierici, 9 dicembre 2019 (AP Photo/Alessandra Tarantino)
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A fine aprile un tribunale ecclesiastico regionale ha riconosciuto il sacerdote Samuele Marelli colpevole, in primo grado, di aver abusato sessualmente di persone minorenni e maggiorenni. Marelli ha 49 anni e in passato era stato responsabile della Fondazione diocesana per gli oratori milanesi: come pena gli è stato vietato di risiedere nell’arcidiocesi di Milano, esercitare pubblicamente il sacerdozio e cercare contatti con i minori. Su di lui indaga anche la procura di Monza, ma quella è tutta un’altra storia.

Divieti come quelli imposti a Marelli (che potrà comunque ricorrere in appello) sono alcune delle pene che un tribunale ecclesiastico può infliggere a un prete riconosciuto colpevole. Com’è evidente, sono molto diverse da quelle che potrebbe disporre un tribunale statale durante un processo penale. Il codice di diritto canonico, cioè l’insieme delle leggi della Chiesa cattolica, è d’altronde una cosa ben distinta dal codice penale e civile di uno Stato.

Questa distinzione spesso non è chiara quando si parla di abusi sessuali nella Chiesa, ed è il motivo per cui certi processi possono sembrare sconclusionati o portare a pene tutto sommato irrisorie rispetto alla gravità delle colpe che vengono riconosciute. Francesco Zanardi, portavoce della rete L’Abuso, associazione che si occupa della tutela delle persone vittime di abusi sessuali da parte di religiosi, dice che molte persone confondono i procedimenti giuridici e si aspettano da quello ecclesiastico esiti che non può avere, come l’incarcerazione del sacerdote colpevole o un risarcimento economico.

«Ci sono due binari della giustizia e sono completamente diversi l’uno dall’altro», dice Zanardi: «quello dello Stato rende giustizia all’essere umano», sintetizza, mentre quello canonico si pone come obiettivo di rendere giustizia a Dio. Zanardi dice che anche molte persone che si rivolgono alla rete L’Abuso fanno spesso fatica a capire questa distinzione: «Tanta gente pensa però che la giustizia canonica sia un’estensione di quella dello Stato. Così al termine di un’indagine ecclesiastica molti arrivano da noi delusi: credono di essere stati presi in giro».

Molti equivoci, secondo Zanardi, nascono banalmente dal fatto che alcuni termini usati per definire i vari passaggi dei procedimenti sono gli stessi: si parla di indagini interne alla Chiesa così come di indagini svolte dalla procura, e si definisce processo quello celebrato nei tribunali ecclesiastici, che però ha caratteristiche diverse da quelli ordinari ed è presieduto da giudici che non sono magistrati.

Lo scopo della giustizia canonica è insomma diverso da quella statale. I processi penali devono accertare la responsabilità di una persona accusata di avere commesso uno o più reati e, in caso di condanna, stabilire la pena appropriata. Come si spiega nell’ultima versione delle Linee guida per la tutela dei minori della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), del 2023, le procedure canoniche puntano a ricostruire la verità e ristabilire la giustizia «all’interno della comunità ecclesiale». Semplificando molto, si può dire che lo scopo della giustizia canonica sia aiutare la salvezza dell’anima di chi ha peccato.

papa francesco

Papa Francesco durante una messa celebrata per la protezione dei minori, 24 febbraio 2019 (Vatican Pool – Corbis/Getty Images)

I due percorsi della giustizia, quello statale e quello canonico, possono non incrociarsi mai: in Italia le autorità ecclesiastiche non hanno l’obbligo giuridico di denunciare gli abusi, né sono obbligate dalla legge dello Stato a rendere conto degli esiti dei processi interni.

Fino al 2023 la normativa canonica non considerava l’abuso come un delitto contro la persona, ma era concepito come trasgressione al sesto comandamento: non commettere adulterio, non commettere atti impuri. Questa concezione, come avevano fatto notare tra gli altri Anna Foa e Lucetta Scaraffia, autrici con Franca Giansoldati di un libro sugli abusi nella Chiesa uscito nel 2022, poneva però un problema di fondo rilevante: si concentrava su chi commette l’“atto impuro” e tralasciava il danno inferto alla persona che subisce l’abuso.

Nel 2023 però il delitto contro il sesto comandamento è stato inserito per volere di papa Francesco tra i delitti contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo. Pierluigi Consorti, professore di Diritto e religione all’università di Pisa e membro del Servizio regionale toscano di tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, spiega che in questo modo si è cercato di dare più centralità a chi subisce abusi. Il diritto canonico dice che va punito il prete che induce un minore a «mostrarsi pornograficamente» e acquista, possiede, divulga immagini pornografiche di minori e persone vulnerabili.

Queste modifiche sono state recepite dalle Linee guida per la tutela dei minori del 2023, che hanno aggiornato quelle del 2019 sulla base di nuove normative come le Norme sui delitti riservati della Congregazione per la Dottrina della Fede (2021) e la Vos estis lux mundi (2023). In questo documento sono illustrate le procedure che in teoria dovrebbero essere osservate nel momento in cui una persona interna alla Chiesa viene a conoscenza di un possibile abuso sessuale commesso su un minorenne o una persona con vulnerabilità da un membro del clero.

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Secondo le Linee guida, i preti hanno l’obbligo di segnalare tutti i presunti casi al vescovo della loro diocesi. L’indagine interna alla Chiesa inizia nel momento in cui un vescovo riceve una segnalazione da parte di qualcuno, che può essere anche una persona esterna al clero, come un educatore dell’oratorio o un familiare della persona abusata. A quel punto il vescovo avvia di solito la cosiddetta “indagine previa”, che ha lo scopo di verificare se la segnalazione ricevuta sia o meno verosimile.

Consorti spiega che non è ben chiaro tuttavia come debba essere fatta nella pratica un’indagine previa, «perché la Chiesa non ha un soggetto specifico per condurre le indagini», come lo è invece la procura nei tribunali ordinari. Succede quindi che spesso sia il vescovo stesso a indagare: lo fa chiamando le persone che potrebbero essere a conoscenza dei fatti contestati e raccogliendo eventuali documenti utili. Il vescovo può affidare l’indagine anche a qualcun altro, per esempio il Servizio regionale o diocesano per la tutela dei minori o il vicario giudiziale, cioè un sacerdote nominato dal vescovo di ogni diocesi.

Durante le indagini il vescovo può decidere se informare o no il prete delle accuse e può prendere dei provvedimenti cautelari nei suoi confronti: per esempio, può proibirgli l’esercizio del ministero e delle attività pastorali con i minorenni e imporgli di cambiare il posto in cui vive. Se il vescovo riscontra la verosimiglianza della segnalazione deve trasmettere i risultati della sua indagine al dicastero per la Dottrina della fede a Roma, l’organo della Chiesa che si occupa tra le altre cose di promuovere e tutelare la dottrina cattolica (fino al 1908 noto come Santa Inquisizione).

Consorti spiega che questo dicastero riceve le indagini previe svolte in tutto il mondo: «È un modo per cercare di evitare che i vescovi insabbino casi di abusi che coinvolgono il proprio clero», dice. Il dicastero per la Dottrina della fede è anche l’unico soggetto della Chiesa cattolica che ha in qualche modo poteri giurisdizionali (cioè può applicare concretamente le norme: quello che fa un giudice), dal momento che è competente per i delitti che la Chiesa considera più gravi.

A questo punto della procedura le cose possono variare da paese a paese. In Italia di solito il dicastero per la Dottrina della fede affida le indagini e il processo ai tribunali ecclesiastici regionali. Sono presenti in ciascuna regione e si occupano prevalentemente di cause matrimoniali. Non sempre quindi hanno le competenze necessarie per affrontare i casi di abusi sessuali. Ne fanno parte il “moderatore”, cioè il presidente del tribunale nominato dalla CEI (che può essere il vescovo della diocesi in cui il tribunale ha sede, ma non necessariamente), il vicario giudiziale, i giudici ecclesiastici (preti con competenze di diritto canonico e professori universitari nominati dalla Conferenza episcopale regionale), i patroni stabili (avvocati e procuratori che offrono consulenza e patrocinio ai fedeli), i consulenti e gli avvocati.

Un tribunale ecclesiastico non ha gli stessi poteri di indagine della procura. Non può, per esempio, far pedinare una persona sospettata o fare delle intercettazioni: quello che fa, in sintesi, è cercare di ricostruire i fatti parlando con le persone ed esaminando eventuali documenti a disposizione. Peraltro il giudice è al tempo stesso la persona che fa le indagini e quella che decide una volta acquisite tutte le informazioni che il tribunale reputa sufficienti. Non c’è una fase di dibattimento come nel processo penale statale, quindi di discussione in aula con un’accusa e una difesa: la persona che denuncia gli abusi non è parte del processo canonico.

Se un prete viene riconosciuto colpevole di abusi sessuali può essere sottoposto a provvedimenti restrittivi, come il divieto di avere contatti con minorenni (com’è successo a Marelli), e ricevere pene ecclesiastiche, la più grave delle quali è la dismissione dallo stato clericale. Alcuni sacerdoti riconosciuti colpevoli vengono inoltre portati in alcune comunità terapeutiche, che la rete L’Abuso ha mappato nel corso degli anni: sono una ventina in tutta Italia e non sono luoghi di detenzione. L’idea della Chiesa è che un sacerdote riconosciuto colpevole non debba essere lasciato solo, ma vada accompagnato in un percorso di responsabilizzazione, richiesta di perdono, riparazione e cura psicologica. Su quest’ultimo punto in particolare la rete L’Abuso ha già espresso diversi dubbi in passato.

Un cartello che chiede “giustizia secolare per tutti” a una manifestazione contro gli abusi sessuali nella Chiesa a Roma, 23 febbraio 2019 (Simona Granati – Corbis/Corbis via Getty Images)

Per Zanardi una delle falle maggiori di tutto questo percorso è che le autorità ecclesiastiche non sono obbligate dalla legge italiana a riferire eventuali denunce di abuso sessuale alle autorità giudiziarie. Per questa ragione, secondo la rete L’Abuso, andrebbe esteso alle autorità ecclesiastiche l’obbligo di denunciare i presunti casi di violenza sessuale commessa dal clero alla magistratura italiana. Zanardi dice che in Italia «la Chiesa non ha bisogno di insabbiare, perché le leggi dello Stato la tutelano».

Consorti spiega che le cose sono cambiate dopo le riforme ecclesiastiche introdotte dal 2010, cioè negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XVI e poi soprattutto durante quello di Francesco, che ha insistito sulla necessità di collaborare con la giustizia ordinaria. «Oggi i vescovi non dovrebbero più stare nell’ambiguità che c’è stata fino a pochi anni fa: il diritto canonico dice che devono indagare e hanno l’obbligo morale di denunciare all’autorità statale. In passato invece l’insabbiamento era la regola», dice Consorti.

La rete L’Abuso denuncia spesso un problema di mentalità ancora molto presente nella Chiesa, e cioè che tutto questo procedimento indicato nella teoria non sia ancora consolidato nella pratica ovunque. C’entrano la reticenza di molti preti a riconoscere la gravità dell’abuso, cui spesso antepongono la paura di danneggiare la reputazione di una diocesi o di un altro sacerdote; la difficoltà di alcune comunità di fedeli ad accettare che degli abusi possano essere stati commessi al loro interno; la colpevolizzazione di chi subisce un abuso, che quindi fatica poi a renderlo pubblico; e il fatto che nella Chiesa persistono forti posizioni di potere, legate agli abusi sessuali compiuti per esempio su persone con vulnerabilità che si affidano a dei preti o sulle suore.

All’opacità dei procedimenti e alle resistenze dei religiosi contribuisce secondo Consorti anche il fatto che in Italia la Chiesa (con l’eccezione della diocesi di Bolzano e Bressanone) non ha ancora fatto un’indagine approfondita e indipendente sugli abusi sessuali commessi al suo interno com’è stato fatto in altri paesi. «C’è questa convinzione ancora, soprattutto nella base ecclesiale, che noi non siamo come gli altri e che il problema siano poche mele marce. E quindi non si affronta ancora un problema che è invece sistemico e pesante».

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