Cosa cambia se vince il “Sì” nei quattro referendum sul lavoro
Quali sono le leggi che verrebbero modificate, come funziona adesso e quali potrebbero essere le conseguenze concrete

Dei cinque referendum abrogativi per cui si vota domenica 8 e lunedì 9 giugno, quattro hanno a che fare con le politiche sul lavoro (il quinto invece è sulla cittadinanza). I quesiti saranno riportati ciascuno su una scheda di colore diverso e si potrà votare anche solo per alcuni. Perché i referendum siano validi serve che vada a votare la metà delle persone che ne hanno diritto, quindi circa 25 milioni. I quesiti sul lavoro sono facilmente sintetizzabili e comprensibili nella loro essenza, ma non è semplice capire che conseguenze avranno, come modificheranno le leggi già in vigore e che conseguenze concrete avranno nel comportamento delle aziende e dei datori di lavoro. Per ora si possono fare solo ipotesi più o meno fondate, e riferire convinzioni e perplessità di chi promuove i referendum e di chi è contrario.
1 – Licenziamenti illegittimi
Il primo quesito, quello riportato sulla scheda verde, propone di abrogare uno dei decreti legislativi con cui è stato attuato il cosiddetto Jobs Act, la riforma sul lavoro promossa nel 2015 da Matteo Renzi durante la sua presidenza del Consiglio: nello specifico il numero 23 del 4 marzo del 2015, successivamente modificato in varie occasioni. Riguarda le tutele per i lavoratori in caso di licenziamento. L’eventuale vittoria del “Sì” non riporterebbe le cose a come erano disciplinate dallo Statuto dei lavoratori del 1970, come spesso è stato detto ultimamente, ma a come era stato modificato nel 2012 dal governo di Mario Monti.
Se il referendum passasse non si tornerebbe insomma all’originario articolo 18 di quello Statuto, ma alla cosiddetta legge Fornero, dal nome della ministra del Lavoro di allora.
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Lo Statuto dei lavoratori prevedeva che, quando un giudice riteneva illegittimo il licenziamento di un lavoratore da un’azienda con oltre 15 dipendenti, il datore di lavoro era costretto a riassumerlo e a riconoscergli un corposo indennizzo: per “illegittimo” si intendeva per esempio un licenziamento che il giudice stabiliva essere originato da una discriminazione, o che si poggiava su un’accusa poi ritenuta infondata, eccetera. Se invece si trattava di un’azienda con meno di 15 dipendenti, il lavoratore licenziato in modo illegittimo doveva essere riassunto oppure, in alternativa, risarcito con un indennizzo tra 2,5 e 14 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione ricevuta.

Maurizio Landini e Elly Schlein durante la maratona oratoria organizzata dalla Cgil a sostegno della partecipazione popolare ai referendum, a Roma, il 19 maggio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Nel 2012 la legge Fornero aveva introdotto una distinzione tra i diversi licenziamenti: è questa la situazione che verrebbe ripristinata se passasse il “Sì” al referendum. Solo per quelli di maggiore gravità, cioè quelli ritenuti manifestamente illegittimi, ci sarebbe l’obbligo del reintegro da parte del datore di lavoro (nel caso di imprese con più di 15 dipendenti); negli altri casi, al lavoratore andrebbe riconosciuto un risarcimento che va calcolato in base a vari parametri, ma che può variare tra le 12 e le 24 mensilità.
Su questo impianto si innestò la riforma del Jobs Act del marzo del 2015: restringendo ancor di più i casi in cui era previsto il reintegro, che di fatto veniva limitato a pochissime fattispecie. Tra gli altri, vennero esclusi dalla possibilità di reintegro i lavoratori che subivano un licenziamento collettivo (cioè quando almeno 5 dipendenti venivano licenziati in meno di 4 mesi): questo generò all’epoca una grande polemica, nonostante il numero di questo tipo di licenziamenti sia tuttora assai basso rispetto al totale.
Se dunque vincesse il “Sì”, tornerebbe ad aumentare il numero dei casi in cui i lavoratori licenziati possono ottenere il reintegro, e in particolare questo diritto verrebbe esteso ai lavoratori coinvolti nei licenziamenti collettivi. Ma a fronte di questo beneficio, la vittoria del “Sì” comporterebbe anche, in certe circostanze, «un arretramento di tutela», come evidenziato dalla Corte costituzionale: in sostanza, per alcune categorie di lavoratori le cose andrebbero un po’ peggio.
Anzitutto perché verrebbe ridotto il limite massimo dei risarcimenti che i lavoratori potrebbero richiedere: il cosiddetto decreto Dignità, approvato dal primo governo di Giuseppe Conte nel 2018, aveva infatti innalzato l’indennizzo massimo da 24 a 36 mensilità, e con la vittoria del Sì si tornerebbe a 24 (al contrario, si avrebbe un beneficio sul limite minimo: che passerebbe da 6 a 12 mensilità). È un aspetto importante, perché la stragrande maggioranza dei licenziamenti ingiusti si risolve proprio con un indennizzo, visto che è spesso difficile reintegrare un lavoratore in azienda dopo che i rapporti umani e professionali si sono guastati.
Ci sono poi altre due possibili conseguenze meno evidenti di questo primo quesito. La legge attuale, quella del 2015, prevede infatti il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente per supposte disabilità psicofisiche che poi si dimostrano ininfluenti per la mansione che erano chiamati a svolgere, e in aggiunta un risarcimento: con la vittoria del “Sì” questa possibilità verrebbe attenuata, e in particolare i risarcimenti sarebbero più limitati. Allo stesso modo verrebbe eliminato il diritto al reintegro per i lavoratori licenziati ingiustamente da parte delle cosiddette organizzazioni di tendenza (cioè partiti politici, sindacati, associazioni religiose), ai quali il Jobs Act aveva invece riconosciuto questa tutela.
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2 – Indennità per chi viene licenziato ingiustamente nelle aziende più piccole
Il secondo quesito, sulla scheda arancione, chiede di rimuovere i limiti massimi di indennizzo in caso di risarcimenti per le imprese più piccole, quelle con meno di 15 dipendenti. In questi casi il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto a un risarcimento massimo di 6 mensilità che può crescere fino a 10 mensilità se ha trascorso almeno 10 anni nell’azienda, e fino a 14 mensilità se ci ha lavorato per più di 20 anni. Queste soglie vennero introdotte originariamente nel 1966, e poi furono sostanzialmente mantenute, pur con alcune variazioni.
Se il referendum venisse approvato le soglie verrebbero eliminate: a decidere sul valore massimo del risarcimento che l’azienda dovrà dare al lavoratore licenziato sarebbe un giudice, chiamato di volta in volta a valutare sul singolo caso, secondo limiti e parametri comunque previsti dal codice civile.

Matteo Renzi, da presidente del Consiglio, illustra il Jobs Act durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi, il 24 dicembre 2014 (ANGELO CARCONI/ANSA)
3 – Le motivazioni dei contratti a tempo determinato
Il terzo quesito, riportato sulla scheda grigia, propone di abrogare una parte di un decreto legislativo del giugno del 2015 in base al quale un datore di lavoro può assumere a tempo determinato un lavoratore per i primi dodici mesi senza darne una motivazione (la cosiddetta causale), mentre è obbligato a specificare la causale se la durata di quel contratto precario si prolunga oltre il primo anno. Se dunque il quesito venisse approvato, il datore di lavoro dovrebbe indicare fin dall’inizio il motivo per cui assume una persona con un contratto di breve durata anziché con uno a tempo indeterminato: spetterebbe poi a un giudice in caso di contenzioso verificare che quella motivazione sia valida, cioè che l’azienda abbia effettivamente una condizione o una esigenza temporanea tale da rendere necessario quel tipo di contratto.
Di solito si dovrebbe ricorrere a questi contratti quando c’è la necessità di sostituire un dipendente (magari perché in maternità, o in aspettativa), oppure perché un’azienda ha bisogno di maggiore personale solo per coprire un picco di produzione in un certo periodo: sono comunque tutte eventualità previste dai contratti collettivi negoziati tra imprese e sindacati. Secondo i critici di questa norma – e quindi anche secondo chi vorrebbe cambiarla col referendum – la possibilità di ricorrere con facilità alle assunzioni a tempo determinato per il primo anno senza causali ha indotto molti datori ad abusare di questi contratti, effettuando ripetute sostituzioni di personale anziché assumere stabilmente dei dipendenti, incrementando dunque il precariato.
D’altra parte, chi rappresenta le imprese sostiene che sia difficile definire con esattezza, fin dall’inizio, i fabbisogni temporanei di dipendenti legati a una specifica condizione momentanea. In altre parole: la possibilità di assumere con contratti a tempo determinato senza grossi vincoli spingerebbe alcuni datori di lavoro a coprire mancanze di personale che altrimenti, a fronte di prescrizioni troppo rigide e del rischio di eventuali contenziosi, potrebbero non essere coperte. È la posizione di chi è favorevole a mantenere lo stato attuale delle cose.
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4 – Responsabilità per gli incidenti sul lavoro
Il quarto quesito, su scheda rossa, riguarda invece la cosiddetta corresponsabilità solidale tra impresa committente e impresa appaltatrice in caso di incidenti sul lavoro. La legge attualmente in vigore è del 2008. Prevede che quando c’è un appalto, il committente (cioè colui che commissiona una certa opera o un certo servizio) sia corresponsabile in solido con l’appaltatore o il subappaltatore (cioè coloro che devono eseguire quell’opera o quel servizio) per gli infortuni accaduti ai dipendenti di questi ultimi.
Il committente deve dunque rimborsare l’Inail per i risarcimenti e gli indennizzi anche per i dipendenti dell’appaltatore e del subappaltatore, con un’eccezione: se i danni sono una «conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». Detta in modo più semplice, se l’incidente di un lavoratore della ditta appaltatrice avviene mentre si svolgevano mansioni su cui si ritiene che la ditta committente non abbia alcuna possibilità concreta di controllo e di intervento, allora la ditta committente non deve pagare.
Se il quesito venisse approvato, questa eccezione – chiamata in gergo esimente o eccezione del rischio specifico – verrà eliminata: il committente sarebbe sempre corresponsabile in solido per gli incidenti.
La modifica si applicherebbe a una serie di casi molto variegata, ed è l’aspetto di questo quesito che ha sollevato più perplessità: dall’impresa edile che fa scavi e si occupa solo di movimentazione terra che dovrebbe rispondere se il lavoratore di una azienda a cui appalta l’elettrificazione del cantiere resta fulminato, fino al condominio che, in certi casi, sarebbe corresponsabile nel caso in cui in un’azienda edile chiamata a ristrutturare la facciata del palazzo subisca un infortunio.
A giudizio della CGIL, e degli altri promotori del referendum, al di là delle circostanze specifiche questa modifica avrebbe comunque l’effetto di indurre tutti a una maggiore attenzione sul tema degli incidenti sul lavoro, e spingerebbe i committenti ad affidarsi non alle imprese che si impegnano a realizzare i lavori con minori costi, spesso tagliando proprio sulla sicurezza dei lavoratori, ma a quelle che hanno maggiori standard e una migliore reputazione.
Una possibile conseguenza diretta della vittoria dei “Sì” potrebbe essere anche che le imprese committenti decidano di stipulare polizze assicurative più estese e più costose, tutelandosi anche nei casi di rischi specifici che non rientrano nelle proprie competenze: se così fosse, per la sicurezza in sé dei lavoratori nei cantieri cambierebbe ben poco (cambierebbe più che altro la parte dei risarcimenti).
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