Di figli all’estero, zucchine e referendum

«Noi pensiamo che ci sia un problema del lavoro grosso così, qui in Italia. E che i referendum avrebbero potuto essere un modo per cominciare un dibattito pubblico. Lo avevamo fatto per i referendum sull’aborto e, ancora prima, sul divorzio. Questa volta non ci siamo riusciti»

Manifestazione dei promotori in piazza Montecitorio a Roma, 11 marzo 2025 (Simona Granati / Corbis via Getty Images)
Manifestazione dei promotori in piazza Montecitorio a Roma, 11 marzo 2025 (Simona Granati / Corbis via Getty Images)
Massimo Cirri
Massimo Cirri

È giornalista e psicologo, autore e conduttore di Caterpillar su Rai Radio 2. Per il Post ha curato il podcast Basaglia e i suoi.

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Il figlio lavora a Dublino e quindi sta a Dublino.

È che questa storia dei referendum mi ha fatto pensare un po’ ai figli. Sono via per lavoro – stanno bene, non c’è niente di drammatico qui – ma mi sono venuti in mente.

Il figlio sta a Dublino e detesta stare a Dublino. Dublino non gli piace. Non gli piace proprio: la disprezza, la biasima, gli fa schifo, la critica e non la sopporta. Perché al figlio Dublino non piaccia io non l’ho veramente capito. Ma non mi dite che voi i vostri figli li capite sempre. Gli ho detto: «È lavoro, Marco, funziona così. Per lavoro, pensaci, c’è gente che deve stare a Calenzano». Sono toscano e come panorama emotivo/comparativo tendo a usare la Toscana.

Lui mi ha detto che tutte le mattine, quando si sveglia a Dublino, apre la finestra e guarda il mare. Io l’ho interrotto: «Da Calenzano non lo vedi il mare, pensaci, Marco». «Ogni mattina guardo il mare», ha detto lui, «perché spero di vedere la flotta inglese che nella notte è arrivata ad occupare Dublino». Perché Dublino gli sta veramente antipatica.

Credo si sia anche iscritto a un piccolo partito inglese non particolarmente progressista che perora la riannessione dell’Irlanda al Regno Unito. Tutto perché Dublino non gli piace proprio.

A Dublino il figlio fa un lavoro che io non ho ben capito quale. E anche qui non mi dite che voi i vostri figli li capite sempre e sapete di preciso che lavoro fanno. Comunque una cosa di informatica. E l’azienda per la quale lavora fa cose per aziende italiane. Quindi, questo è certo, il figlio sta a Dublino perché a Dublino l’azienda non paga le tasse. O ne paga poche. L’azienda ha migliaia di persone che stanno a Dublino ma non lavorano per Dublino e neanche per l’Irlanda. E ce ne sono tante altre che fanno uguale. Così Dublino ha affitti carissimi e l’azienda paga di più i dipendenti che stanno a Dublino dove il costo della vita è diventato molto alto. Tanto l’azienda a Dublino non paga le tasse.

La figlia, ma noi, lessico familiare, diciamo la bambina, sta a Londra. Non è contentissima di starci, ma niente in confronto al fratello. Dice che le manca un po’ l’estate – «Qui per capire che è estate devi guardare il calendario» – e poi a lei piace cucinare, verdure soprattutto, e dice: «Qui le verdure non sanno di nulla». Io le ho detto che mi dispiace, che per lavorare c’è gente che deve stare a Calenzano e che le verdure senza sapore sono un segno della nostalgia. Perché le zucchine sono uguali in tutti i supermercati del mondo, le fabbricano globalmente partendo dallo stesso DNA e a te, Giulia, pare che non sappiano di nulla perché ci hai spalmato sopra la tua nostalgia. Le ho citato Michele Risso, che era uno psicanalista che ha lavorato con Franco Basaglia, a Gorizia, sessant’anni fa.

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In famiglia siamo basagliani osservanti e guardiamo il mondo con questa prospettiva. Prima di andare a Gorizia a inventare una cosa mai pensata prima nella storia, il mondo senza manicomi, Michele Risso curava gli immigrati italiani in Svizzera. Che soffrivano la lontananza, lo sradicamento e si ammalavano di nostalgia e finivano in manicomio. Si ammalavano nei sentimenti perché erano come l’alpinista bloccato sulla via della montagna, né a valle né in cima. Né qua né là (A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale è il titolo del libro. Einaudi, 1961. Scritto con Delia Frigessi Castelnuovo, completezza dell’informazione). E tu, Giulia, dicevo io, forse sei un po’ nella stessa situazione. Un po’ di perdita di senso che viene fuori nella zucchina senza sapore. Niente di che, rispetto all’alienazione di tanti calabresi nelle baracche dormitorio di Basilea. Ma noi umani siamo fatti della stessa pasta.

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Poi mia moglie è andata a Londra a trovare la bambina. Si è fermata qualche giorno e quando è tornata ha detto: «Stanno in una bella zona, lei è abbastanza contenta, le verdure non sanno di nulla».

La bambina sta a Londra perché quando ha finito di studiare ha mandato i curricula. Le hanno risposto da Milano: «Il tuo CV ci interessa. Ti offriamo uno stage di un anno a 350 euro al mese, forse arriviamo anche a 400. Poi, di sicuro, non potremo assumerti».

Da Londra le hanno detto: «Il tuo CV ci interessa. Ti assumiamo». Assunzione, tempo indeterminato, a 23 anni. Ci sembrava strano.

E prima, quando studiava e nei mesi dopo, quando mandava curricula a raffica e faceva colloqui, la bambina ha lavorato in una caffetteria, a Londra: cameriera part time. E una sera ha telefonato a casa e ha detto: «Ho fatto tre giorni di prova, con un contratto di prova. Da domani mi assumono con contratto regolare. Mi versano anche i contributi per la pensione. Ma voi – ha chiesto – avete mai sentito, in Italia, di una cameriera part time assunta con i contributi?».

Noi no. Mai sentito.

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Noi pensiamo che ci sia un problema del lavoro grosso così, qui in Italia. Tanti problemi: la qualità del lavoro, del suo senso, gli stipendi e i diritti. E che i referendum avrebbero potuto essere un modo per cominciare un dibattito pubblico. Lo avevamo fatto per i referendum sull’aborto e, ancora prima, sul divorzio.

Discussioni infinite, forti, feroci, divisive. Ma è un referendum: sì o no? Divisivo per natura. Questa volta non siamo riusciti a entrare nel merito e ci siamo fermati – hanno fermato molte possibilità di confronto pubblico – sull’andarci o non andarci, a votare. Fino al capolavoro: «Vado al seggio, parcheggio, entro, saluto cordialmente, esco la carta d’identità e la tessera elettorale ma però non ritiro la scheda». Che a Calenzano, al seggio – ce ne sono 16 – ti chiederebbero la stessa cosa: «Ma allora, di preciso, icché tu ci sei venuta a fare?».

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