La Cina ha una cosa in più: le terre rare
Ci sta facendo i conti tutto l'Occidente e soprattutto Trump, che nei negoziati commerciali in corso sa di non poter tirare troppo la corda

La Cina ha un vantaggio fondamentale nella guerra commerciale con gli Stati Uniti, che sta costringendo l’amministrazione del presidente Donald Trump a scendere a compromessi e a chiedere negoziati: sono le cosiddette “terre rare”.
Lunedì a Londra sono cominciate le trattative tra la delegazione americana e quella cinese per cercare di porre fine alla guerra commerciale, e la questione delle terre rare era di gran lunga la più importante e urgente in discussione. L’argomento sembra tecnico, ma è semplice: la Cina controlla tra l’80 e il 90 per cento della produzione mondiale di terre rare. Queste terre rare sono così importanti che, se la Cina non le esporta, moltissime attività industriali in tutto l’Occidente si interrompono. È quello che sta succedendo in queste settimane.
Le terre rare sono un gruppo di 17 metalli che in realtà sono abbastanza comuni sulla Terra. La loro diffusione però non è uniforme, ed estrarle e maneggiarle è difficile, costoso e molto inquinante: per questo sono molto ambite. All’interno di un’automobile elettrica o ibrida, in media, ci sono 500 grammi di componenti realizzati con terre rare. Servono soprattutto per far funzionare il motore, ma anche il sistema di sterzo, i freni, i finestrini elettrici. Le terre rare sono presenti anche nelle auto con motori a scoppio, ma in misura minore. All’interno di un caccia F-35, il più sofisticato aereo da guerra a disposizione dell’Occidente, ci sono più di 400 chili di terre rare. In un sottomarino militare, ce ne sono quattro tonnellate.
Questi elementi importantissimi sono quasi esclusivamente controllati dalla Cina, che può decidere a suo piacimento se esportarli oppure no.

Una miniera di terre rare nella regione cinese della Mongolia Interna (Getty Images)
Già durante la prima guerra commerciale cominciata da Donald Trump nel 2018, la Cina aveva minacciato la possibilità di interrompere le esportazioni di terre rare, ma era arrivata a un accordo con gli Stati Uniti prima che succedesse. Quando però, ad aprile, Trump ha ricominciato la guerra commerciale e imposto dazi di oltre il 100 per cento sulle merci cinesi, la Cina ha infine risposto con una restrizione alle esportazioni di sette terre rare. E per far capire quanto fosse forte il suo dominio, ha esteso queste restrizioni non soltanto agli Stati Uniti, ma a tutto il mondo.
La Cina non ha vietato del tutto le esportazioni. Ma per poter importare le terre rare ogni singola azienda straniera deve chiedere un permesso specifico a un ufficio di Pechino che fa parte del ministero del Commercio. Da aprile a oggi, l’ufficio ha ricevuto migliaia di richieste da aziende di tutto il mondo, comprese centinaia da compagnie automobilistiche europee e americane. Ma per ora i permessi concessi sono stati pochissimi, meno del 25 per cento del totale. Senza le terre rare, come dicevamo, la produzione si ferma.
La carenza si è fatta sentire soprattutto nell’industria automobilistica, che per come è strutturata risente per prima delle mancanze di materie prime e semilavorati. A maggio la Ford ha chiuso temporaneamente una fabbrica a Chicago perché mancavano le terre rare per la produzione. La settimana scorsa l’Associazione europea delle aziende che forniscono componenti alle case automobilistiche, ha detto che in tutta Europa varie linee di produzione sono state costrette a fermarsi.
Negli scorsi giorni le associazioni dei produttori automobilistici di Germania, Stati Uniti, India, Giappone, Corea del Sud e altri hanno detto che se le esportazioni delle terre rare non riprenderanno rapidamente, le loro fabbriche dovranno interrompere la produzione.
La situazione è così grave che alcune aziende automobilistiche americane hanno cominciato a vagliare ipotesi bizzarre per aggirare la restrizione delle esportazioni. Per esempio potrebbero fabbricare i motori negli Stati Uniti; poi portarli in Cina per montarci sopra i componenti con le terre rare; e infine ri-esportarli negli Stati Uniti per la vendita.

Una miniera di terre rare nella provincia cinese dello Jiangxi (Chinatopix via AP, File)
È questa una delle ragioni per cui, nelle scorse settimane, Trump ha cominciato a chiedere insistentemente di poter negoziare con la Cina, rinunciando alla retorica aggressiva dei primi tempi. A inizio giugno si era perfino lamentato sul suo social media Truth, scrivendo: «Apprezzo il presidente cinese Xi [Jinping], l’ho sempre fatto e continuerò, ma è MOLTO DURO ED È DAVVERO DIFFICILE FARE UN ACCORDO CON LUI!».
La settimana scorsa, Trump e Xi sono stati al telefono per oltre un’ora. Alla fine della conversazione Trump ha menzionato la questione delle terre rare, segno che per lui è pressante. Nel resoconto di parte cinese, invece, le terre rare non erano citate. Come segno di buona volontà la Cina negli ultimi giorni ha concesso permessi di esportazione ad alcune aziende automobilistiche.
Rispetto ai dazi, l’arma commerciale preferita di Trump, i controlli alle esportazioni di elementi fondamentali come le terre rare sono molto più efficaci: i dazi danneggiano economicamente anche il paese che li impone. Ma la Cina, controllando le terre rare, infligge un grave danno economico agli Stati Uniti senza infliggerlo a se stessa.
E qui c’è un altro fortissimo vantaggio della Cina: per ridurre la propria dipendenza dalle terre rare cinesi, gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero impiegarci anni, se non addirittura un decennio. Il settore delle terre rare è estremamente complicato, e negli anni la tecnologia di estrazione cinese è avanzata così tanto che ormai è quasi impossibile farle concorrenza. Inoltre ripristinare un’intera industria mineraria da zero richiede enormi investimenti ed è poco conveniente.
L’amministrazione di Joe Biden, per esempio, ha provato negli scorsi anni ad attivare due grosse licenze per la costruzione di impianti per la produzione di samario, una terra rara fondamentale per l’industria militare di cui la Cina è l’unico fornitore al mondo. Ma alla fine nessuno dei due impianti è stato costruito, perché non c’era abbastanza da guadagnare per le aziende private che li avrebbero gestiti.